L’impresa Editoriale 6/2004

Un nuovo fantasma (se il vecchio Karl Marx ci consente l’irriguardoso accostamento) si aggira per l’Italia: il fantasma della corporate governance. Si aggira per convegni e pagine di giornali, per seminari e congressi, per centri studio e salotti, alla ricerca della virtù perduta o, forse, all’inseguimento di una virtù mai posseduta: la corretta gestione delle imprese nell’interesse di tutti, dagli azionisti ai dipendenti, dai fornitori ai clienti, dai risparmiatori alla Pubblica Amministrazione. Questo nel rispetto delle leggi; un rispetto che non intralci ma al contrario favorisca il miglioramento delle performance aziendali, mettendo d’accordo gli interessi delle imprese con quelli del corpo sociale nel suo complesso. Andando così a saldare la corporate governance (c.g.) con la corporate social responsibility (c.s.r.): due sigle oggi di moda, talmente di moda da rendere sospettosi anche i meno cinici tra noi. Troppe Enron, troppe Parmalat sono passate sotto i ponti per credere alla istantanea redenzione ope legis di soggetti portati istintivamente più al ruolo del lupo che a quello di San Francesco.
Ma tant’è, dobbiamo tutti fare uno sforzo di fiducia, remare tutti con la stessa forza, con le stesse cadenze e nella stessa direzione (come dice la metafora iconografica con cui illustriamo il focus di questo numero) e far sì che leggi, codici di autoregolamentazione e sistemi di vigilanza funzionino in maniera efficace. Facendo soprattutto sì che la componente “sostanziale” prevalga su quella “procedurale”, cioè che la cultura di management si appoggi sull’architettura normativa e la superi. Così come il pianista che esegue in concerto gli Studi trascendentali di Liszt ha interiorizzato centinaia di ore di aridi esercizi tecnici, “dimenticandoli” in una sintesi superiore nel momento della performance.
Numerosi i punti chiave della nuova governance, dalla tutela delle minoranze ai conflitti di interesse, dal potere effettivo degli organismi di controllo alla reale indipendenza e professionalità dei non executive directors. Tutto questo mentre la Commissione Europea sta per approvare due raccomandazioni – peraltro non vincolanti – del commissario uscente al mercato interno Frits Bolkenstein.
Secondo la prima un consigliere d’amministrazione potrà essere considerato indipendente solo se sarà “libero da ogni rapporto d’affari, familiare o di altro genere con la società, l’azionista di controllo o il management che potrebbe pregiudicare la sua valutazione”. Nei Cda vi dovrebbe essere un “appropriato equilibrio numerico tra manager esecutivi e dirigenti con responsabilità di supervisione”, per evitare che una singola persona o un piccolo gruppo possano dominare il processo decisionale.
La seconda raccomandazione richiede invece una maggiore trasparenza nella politica di remunerazione dei dirigenti: gli Stati membri dovrebbero pertanto imporre alle società quotate di rendere noto agli azionisti stipendi, benefit, azioni, contributi e quant’altro concesso ai propri top manager.
Come si vede, la strada per un capitalismo poco incline alla regolazione come il nostro si fa in salita. Per cercare di far luce sui punti più delicati di questo processo abbiamo quindi deciso di mettere virtualmente intorno a un tavolo quattordici protagonisti della vita economica italiana (imprenditori, manager, banchieri, politici, consulenti, docenti) chiedendo