L’impresa Editoriale 4/2004

La primavera che ha sconvolto l’economia italiana. Prima il cambio al vertice di Confindustria, non solo con un nuovo presidente, Luca Cordero di Montezemolo, ma anche con un programma radicalmente nuovo verso la politica, il sindacato e la società. Poi la scomparsa di Umberto Agnelli, la vicenda Morchio e la nomina dello stesso Montezemolo alla presidenza del gruppo torinese. In poche settimane la via italiana al capitalismo è stata ripensata, sotto la pressione di eventi gestiti consapevolmente (la presidenza di Confidustria) e di altri guidati dal caso (la scomparsa di Umberto Agnelli).
Il nostro sistema economico ha bisogno di iniezioni di fiducia oltre che di qualche salutare shock, come la presa di distanza della principale associazione imprenditoriale da un governo cui in precedenza era stata firmata una cambiale in bianco. Ma ha anche bisogno di ripensare il suo codice genetico, caratterizzato da un 95% di aziende a conduzione familiare e con meno di dieci dipendenti. “Piccolo” è stato indubbiamente “bello”, quando la lira consentiva svalutazioni competitive e quando i distretti funzionavano a pieno regime in una competizione internazionale basata sul costo. Ma oggi che la lira non c’è più e la concorrenza sul costo è drammaticamente e definitivamente perduta a favore dei paesi emergenti, Cina e India su tutti, riprogettare la struttura dell’industria italiana non è più un optional. è un must.
Le aziende del nostro paese devono necessariamente crescere per poter sostenere la ricerca senza la quale non si fa innovazione e non si compete nel mondo. Per crescere bisogna vincere le remore ereditarie che fanno parte del Dna dei nostri imprenditori: non necessariamente hanno in famiglia l’erede o gli eredi per continuare l’attività, e se li hanno non è detto che siano adeguati al compito. Quindi, è bene che considerino l’ipotesi di affidare la gestione a professionisti esterni, cioè a manager.
In secondo luogo, per crescere è necessario un salto di qualità nella cultura finanziaria media dell’imprenditore italiano, che non ama la borsa, né il venture capital, né i fondi di investimento, perché aprendo la porta di casa propria teme di perdere prima o poi la chiave della cassaforte. Timori legittimi e spesso giustificati. Ma rinchiudendosi nella piccola fortezza circondata dal fossato con i coccodrilli, i rapporti con il mondo esterno si faranno sempre più difficili e sporadici. Per evitare di crescere insieme ad altri si rischia di morire.
Il capitalismo familiare, che è stato ed è l’ossatura dell’economia italiana, molto probabilmente lo resterà ancora a lungo, a patto che apra, se non la porta, almeno le finestre di casa per far passare aria fresca. Come ha scritto recentemente con efficacia sul Corriere della Sera Marco Vitale (del quale pubblichiamo nelle pagine seguenti un contributo sul tema), il nostro capitalismo resterà familiare “se saprà, come in gran parte è già, essere familiare-professionale e non familiare-familista, come dimostra lo scatto di orgoglio e di unione della colpita famiglia Agnelli”. E, andando da una citazione all’altra, si sviluppi la ricerca e si arricchisca