L’impresa Editoriale 1/2005

Si fa presto a dire innovazione. Parola riservata agli specialisti fino a pochi anni fa, da qualche tempo abbonda sulla bocca di politici, imprenditori, studiosi e tuttologi. Il solo evocarla sembra risolvere taumaturgicamente ogni problema e chi non la pronuncia è segnato a dito come un obsoleto residuo del passato.
Bravi come siamo a inventare le mode, o a cavalcarle, noi italiani dovremmo essere al primo posto nel mondo per sviluppo industriale e crescita del Pil. Invece arranchiamo nelle posizioni di rincalzo. Perché? Perché la tanto evocata innovazione è per noi come l’Araba Fenice: “Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
O meglio, dove sta lo sappiamo, solo che in passato il sistema paese non ha fatto niente per andarla a cercare e adesso, con anni, decenni di ritardo, è dura recuperare il divario accumulato. Tanto più che il governo sembra privilegiare la ricerca del consenso con tagli (dall’efficacia tutta da dimostrare) alle imposte dei cittadini, mantenendo nella migliore delle ipotesi inalterata la pressione fiscale reale sulle aziende e nulla concedendo alle richieste di incentivi alla ricerca (da quella universitaria a quella industriale).
Innovazione vuol dire molte cose, ma al suo primo stadio è ricerca. Ebbene, che dire di un paese le cui principali università registrano buchi di bilancio di dimensioni ragguardevoli (la Sapienza di Roma, per citarne solo una, ha un rosso di 60 milioni di euro)? Dal 1994 al 2003 l’aumento complessivo del Fondo di funzionamento ordinario degli atenei italiani da parte dello Stato è stato del 72,4%, al di sotto degli incrementi dei costi generali (soprattutto stipendi) pari all’81,5%. Che ricerca si vuol fare se le università hanno a mala pena – e nemmeno sempre – le risorse per pagare gli stipendi?
E le imprese? Anche sul loro versante le azioni non sembrano sempre corrispondere alle parole. Ci può essere innovazione senza formazione? Certo che no. Eppure le grandi scuole di management fiorite negli anni Settanta e Ottanta (Fiat, Montedison, Eni, Telecom) oggi sono state marginalizzate senza al contempo essere riuscite a diventare unità di profitto. “Fa un po’ impressione – ha scritto recentemente sul Corriere della Sera Mario Rosso – sentire oggi con quanta passione e urgenza viene riproposto il tema della necessità di una forte ripresa degli investimenti in ricerca e sviluppo, proprio da molti di quei grandi industriali e top manager che, al primo stormir di fronde, non ci hanno pensato due volte a ridurre, dimezzare, cancellare le spese di formazione.”
Non sono lamentele le nostre, sono constatazioni. Sulla base delle quali L’Impresa ha deciso di dare – nel suo piccolo – un contributo alla riflessione sul tema. Per tutto l’anno la rivista si interrogherà sui problemi dell’innovazione, partendo dal Documento Pistorio (pubblicato integralmente nelle pagine seguenti) nel quale il nuovo corso di Confindustria ha concentrato uno sforzo di ricerca e proposta finalmente non rituale. Una proposta basata su quattro pilastri, dati per scontati i “fondamentali” dell’innovazione di prodotto e di processo: l’informatizzazione