Troppe parole per nulla?

Forse stiamo leggendo troppo. Qualcuno lo chiama binge reading, quasi fosse un disordine alimentare: in media leggiamo più di 100 mila parole al giorno. Più o meno, è come se leggessimo per due volte Mattatoio n° 5 di Vonnegut ogni santo giorno. Lo studio, condotto dall’Università di San Diego, riguarda l’americano medio del 2008, ma probabilmente l’italiano del 2015 (per lo meno, l’italiano istruito e/o dotato di smartphone) non è molto diverso: in questa abbuffata di parole lette, e dunque scritte, contano le email, gli sms, i tweet, gli status su Facebook, le indicazioni del navigatore, le chat di WhatsApp. Ma contano anche gli articoli letti – sempre più spesso, su Internet; sempre più spesso, da mobile; sempre più spesso, a partire da un link su un social network.

A volte mi domando se non ci siano troppe cose interessanti da leggere online. Troppe super-recensioni che sviscerano la tesi di un saggio mettendolo a confronto con mille altri, troppi longform, troppi reportage ben fatti, troppe analisi studiate a fondo, troppe personal essay illuminanti. Non sono l’unica a farsi questo tipo di domande. Qualche tempo fa, su The Awl, il giornalista freelance Noah Davis si chiedeva se non ci fosse una «bolla dei contenuti»: ok, siamo nell’età dell’oro del giornalismo online, ma quanto potrà durare? Chi ha il tempo di leggerla, tutta questa roba? Ma, soprattutto, chi ha il denaro per pagarla? Davis si riferiva al giornalismo online anglo-americano: il proliferare dei cosiddetti siti d’informazione di seconda generazione (Vox, BuzzFeed, Quartz), che affiancano a contenuti aggregati, spiegoni e listicle vari, longform ambiziosi e ben pagati; i siti di prima generazione che si adeguano al trend (Salon, Slate, The Daily Beast e Vice, che forse meriterebbe un discorso a parte); le media company tradizionali che stanno facendo sforzi titanici per produrre contenuti di alta qualità online only (New Yorker, New York Magazine, Guardian, Atlantic, New Republic); e infine una nutrita schiera di siti di nicchia che godono di una grande influenza, come Aeon e lo stesso Awl. Tutte testate che fanno cose bellissime online, e che le pagano bene. Tutte testate che di queste cose bellissime sul web non vivono. C’è chi ha grossi capitali alle spalle, chi sostiene il web con la carta, chi guadagna dal native advertising e altre forme di contenuto sponsorizzato: il più delle volte, una combinazione di questi fattori.