Maker Faire: quanto vale un artigiano digitale?

La terza edi­zione della Maker Faire euro­pea si è chiusa a Roma dome­nica con nuovi record di par­te­ci­pa­zione. Oltre cen­to­mila visi­ta­tori – tren­ta­mila in più rispetto al 2014 – hanno potuto apprez­zare le inven­zioni di set­te­cento espo­si­tori. C’erano i grossi nomi dell’high tech, come Goo­gle o Micro­soft. Ma i pro­ta­go­ni­sti della fiera sono stati i makers, capaci di rea­liz­zare droni, robot, sen­sori (ma anche gio­ielli, bici­clette e pie­tanze) all’insegna del fai-da-te e della con­di­vi­sione delle idee e delle tec­no­lo­gie. Solo gli stu­denti uni­ver­si­tari, i veri padroni di casa, ne sono stati tenuti fuori con idranti e manganelli.

I numeri della fiera hanno con­vinto gli orga­niz­za­tori a tenere a Roma anche le pros­sime due edi­zioni. Nel giro delle Maker Faire, che si svol­gono in tutto il mondo, l’appuntamento romano è ormai il secondo per impor­tanza dopo quello di San Fran­ci­sco, tanto da con­vin­cere colossi come la Intel a pre­sen­tare qui i nuovi pro­dotti per i maker.

«La cosa che rende più orgo­gliosi di que­sta fiera è vedere gente che ha ini­ziato solo con grandi idee e spe­ranze e che adesso ha die­tro una sto­ria, un busi­ness», ha dichia­rato al sito Lin­kie­sta Mas­simo Banzi, orga­niz­za­tore della Maker Faire insieme a Ric­cardo Luna e ormai lea­der mon­diale del movi­mento maker. «Basta chia­marli arti­giani digi­tali, negli Usa si vedono come Steve Jobs», avverte.

Finito il tempo dei gio­chi, dun­que, la terza edi­zione è stata quella della matu­rità. Se i maker sono dav­vero una risorsa per l’innovazione ita­liana, è giunto il momento di dimo­strarlo. Per que­sto, Banzi, Luna e Carlo de Bene­detti, riu­niti nella fon­da­zione MakeI­nI­taly, hanno com­mis­sio­nato «Il 1° rap­porto sull’impatto delle tec­no­lo­gie digi­tali nel sistema mani­fat­tu­riero ita­liano» all’economista Ste­fano Micelli, assi­stito dalla Fon­da­zione Nor­dEst e dalla società di con­su­lenza Pro­me­teia. I risul­tati dello stu­dio, che ha riguar­dato aziende con almeno un milione di euro di fat­tu­rato, sono stati pre­sen­tati alla Maker Faire romana e sem­brano par­lar chiaro: il giro d’affari che ruota intorno alla stampa tri­di­men­sio­nale, alla robo­tica e all’«Internet delle Cose» (oggetti della vita quo­ti­diana in grado di scam­biare dati tra loro per aiu­tarci e infor­marci) potrebbe aggiun­gere 8,6 miliardi di Pil e 39mila posti di lavoro ogni anno all’economia nazio­nale. Le aziende che hanno intro­dotto que­ste tec­no­lo­gie hanno ripor­tato pro­du­zione e cre­scita al livello pre-crisi. Le altre rista­gnano sui valori di quin­dici anni fa.

Cifre rile­vanti, forse ecces­sive anche per il note­vole tasso di crea­ti­vità mostrato dai maker durante la fiera. Infatti, leg­gendo meglio il rap­porto si capi­sce che quei dati poco hanno a che fare con la Maker Faire. Gli arti­giani digi­tali in mostra alla Sapienza dimo­strano il note­vole poten­ziale del «fai-da-te» quando è assi­stito da tec­no­lo­gie digi­tali a basso costo. La culla di que­ste inven­zioni sono i FabLab, offi­cine auto­ge­stite in cui stru­menti e cono­scenze ven­gono messi in comune. In Ita­lia ce ne sono un cen­ti­naio, solo negli Usa sono più nume­rosi. Secondo il «cen­si­mento» del 2014 svolto dalla fon­da­zione MakeI­nI­taly, i FabLab ita­liani sono luo­ghi depu­tati soprat­tutto all’artigianato e al cowor­king, men­tre all’estero le atti­vità di edu­ca­zione e ricerca pre­do­mi­nano. Dun­que lo spi­rito impren­di­to­riale non manca. Tut­ta­via, il rap­porto mostra che dav­vero le tec­no­lo­gie digi­tali for­ni­scono aumenti di pro­dut­ti­vità alle imprese. Tut­ta­via, esse ven­gono inte­grate secondo moda­lità molto diverse da quelle dei FabLab. Ad esem­pio, la stampa tri­di­men­sio­nale è più uti­liz­zata dal 33% delle aziende con oltre 50 dipen­denti, e solo dal 24% di quelle con meno di 10 dipen­denti. Stesso discorso vale per la robo­tica, 54% con­tro 30%. Dun­que, il bacino di utenza delle tec­no­lo­gie digi­tali non sono gli arti­giani, ma tra le aziende di dimen­sioni mag­giori. Anche la pro­pen­sione a «far da sé», tanto cara ai maker, fatica ad affer­marsi nell’utilizzo reale di que­ste tec­no­lo­gie da parte delle imprese: oltre la metà delle imprese che hanno dichia­rato di farne uso, in realtà ammet­tono di ricor­rere a ser­vice esterni.