L’impresa Editoriale 6/2005

Chi percorre l’autostrada Bari-Napoli in direzione del capoluogo campano, a un certo punto, nel bel mezzo del Subappennino Dauno, si troverà di fronte il fianco di una collina completamente occupato da enormi torri eoliche, così grandi e vicine che sembra di poterle toccare allungando la mano fuori del finestrino. Un pugno nell’occhio per molti, niente di peggio dei tralicci dell’elettricità per altri, un inno all’architettura postmoderna per qualche esteta d’avanguardia. Sul problema delle pale eoliche, che producono energia verde ma deturpano il paesaggio, il mondo ambientalista si è spaccato. Apocalittici quelli di Italia Nostra, integrati quelli di Legambiente, per riprendere le categorie di Umberto Eco. E si sono spaccati anche i pubblici poteri, mettendo in più occasioni a contrasto Comuni e Regioni: i primi difensori dei nuovi “campi del vento” che portano royalties con le quali risanare i traballanti bilanci delle comunità, soprattutto quelle più povere di montagna, i secondi tesi a difendere i valori paesaggistici che producono reddito dal turismo.
Spesso si tratta di discussioni ad alto tasso di ideologia. Basta andare un po’ in giro per l’Europa e ci si accorge che la ragione economica prevale su estetismi veri o presunti anche in aree che hanno nel paesaggio una delle armi strategiche di attrazione. Basti pensare alle ondulate pianure del Sud della Francia tra i Pirenei e Tolosa, dove i crinali di molte colline sono occupati da campi eolici, e dove capita non di rado di trovare qualche rudere cataro o qualche borgo medievale completamente circondati da bianche e gigantesche pale a vento. Chi vuole togliersi la curiosità percorra il tratto tra Castelnoudoray, Carcassonne e Narbonne. E non ci sembra che la Francia sia poco attenta alla tutela del suo territorio, né che le colline della Languedoc siano meno attraenti dell’Appennino tra Puglia e Basilicata. Se ci si vuole invece spingere più a Nord, basta fare un giro sulle coste della Danimarca e della Svezia: le navi che escono dal porto di Goteborg, ad esempio, percorrono una sorta di canale delimitato da centinaia di generatori a elica. E solo per limitarsi a recenti viaggi di chi scrive.
Queste considerazioni servono a introdurre, da una delle tante possibili porte di entrata, il tema focale di questo numero de L’Impresa, che la rivista svilupperà in maniera continuativa per tutto il 2006: la nuova, possibile alleanza, tra le ragioni dell’ambiente e quelle dell’economia. Ragioni finora separate da quelli che negli anni ’70 avremmo chiamato opposti estremismi. Da una parte i sostenitori del ritorno a un’Arcadia probabilmente mai esistita, dall’altra i promotori di uno sviluppo industriale senza se e senza ma, simile a quanto sta accadendo in un Paese come la Cina che non può, o meglio che non vuole permettersi il “lusso” di uno sviluppo temperato dalle esigenze dell’equilibrio ambientale.
L’indagine pubblicata da L’Impresa ci dice che oggi la barriera ideologica può essere abbattuta, grazie a soluzioni pragmatiche che partono dall’utilizzo del letame e dei rifiuti. E che continuano con la produzione di