Coworking a chi?

Qualche giorno fa è uscito un bell’articolo su la nuvola del lavoro a firma di Barbara D’Amico, una disamina critica di uno studio o meglio del modo in cui è stata utilizzata un’indagine, relativamente al (presunto) gradimento negativo, sul coworking, da parte dei dipendenti di alcune aziende europee. Nello specifico la società immobiliare Beni Stabili ha commissionato a Foncière des Régions uno studio sulla sharing economy La ricerca è stata condotta su un campione di circa 3 mila dipendenti aziendali in cinque paesi europei, in Italia il campione di intervistati è di 503 lavoratori ed ha investigato anche tre modalità di lavoro, quella nell’ufficio classico, da casa e in spazi di lavoro condiviso, senza mai parlare di coworking.

Invece a giudicare dai titoli usciti nell’ultima settimana, il risultato sarebbe stato che i colletti bianchi non gradiscono il coworking come soluzione lavorativa. L’ottantasei per cento del campione in Italia ha dichiarato comunque di lavorare in uno spazio comune open space (33 %), ufficio di massimo cinque individui (31%), coworking aziendale (18%) e coworking inter aziendale (4%), ma dicendo che tornerebbero volentieri a un ambiente più isolato e tranquillo.

Tutta via come rileva la giornalista: “l’interpretazione è fuorviante. Primo, il campione intervistato riguardava appunto i colletti bianchi, lavoratori dipendenti e non anche la quota di freelance e liberi professionisti che sono invece il target principale dei coworking” e poi prosegue dicendo: “Secondo, se si guarda invece alla quota di persone che lavorano da sole in uffici chiusi  e che vorrebbero invece lavorare in uno spazio condiviso ecco che su 70 risposte in Italia il 68% risponde che sì, condividerebbe volentieri la scrivania”.