Il museo alla conquista del tempo

A conti fatti, la vera spina nel fianco del museo d’arte contemporanea sembra davvero essere il tempo. Prima degli spazi adatti, delle risorse, del pubblico, ciò che in fondo lo destabilizza, è il tempo in cui si situa. Come ogni altro museo, per missione colleziona, preserva, fa ricerca e presenta opere al pubblico. Ma: non è mai realmente il contemporaneo di cui si occupa, tendendo a situare il proprio raggio d’azione fra la fine del XX secolo e quella del XXI; che è, purtroppo, un arco di tempo fuori dallo spettro educativo-formativo tradizionale e giocoforza non penetra nell’immaginario come i grande nomi dagli Impressionisti fino a Picasso. Il contemporaneo ovviamente non è il presente, ma non è neppure certo se si situi dalle avanguardie storiche o dalle neoavanguardie in poi. Insomma, il museo è fuori sincrono.

E di qui ogni conseguenza e un’abbastanza consueta pletora di domande, tutte legittime: come attrarre il pubblico, come svecchiare i modelli, come fare formazione. Una delle strategie più diffuse è stata cercare di sovrapporre un’ulteriore voce, come contando su una bizzarra possibilità di doppiaggio: e si così rinominato il museo, aprendone le funzioni da una parte, ma ovviamente annacquandone l’identità dall’altra: il museo-laboratorio, il museo-cantiere, il museo-sistema.

Certo, il museo deve sperimentare e fare ricerca, come un cantiere deve incessantemente costruire e ricostruirsi e senz’altro appartenere a una rete territoriale e culturale. Ma questo non basta a dare risposte soddisfacenti. Soprattutto alla domanda in fondo centrale, che è evidentemente non tanto portare il pubblico al museo la prima (e sovente unica) volta, ma fare in modo che torni, e possibilmente spesso. E, particolarmente, non potendo contare né sul bacino di fruizione di una megalopoli e neppure sullo statuto simbolico/turistico su cui si appoggiano grandi ed inconfrontabili istituzioni come Tate Modern a Londra, Centre Georges Pompidou a Parigi, MoMA o Met a New York.

Tate Britain, per esempio, certamente non frequentata da 5 milioni di persone l’anno come la sorella Tate Modern, ha sperimentato in autunno con un successo inaspettato Sensorium: un display immersivo e multisensoriale che consentendo di annusare profumi o ascoltare suoni di dipinti e sculture ha espanso le facoltà percettive e quindi interpretative di opere di artisti celebrati, come Francis Bacon, ma anche più potenzialmente ostiche, come l’irrequieto concettuale John Latham.

Cosa ha dimostrato Sensorium e che lezione se ne può trarre? Che non è impossibile per il museo d’arte contemporanea essere quello che semplicemente dovrebbe essere: il luogo dell’incontro unico e ravvicinato con l’opera e il suo valore simbolico, articolata in sequenze che possono essere cronologiche, geografiche, di senso, che consentano di raccontare storie, ora molto specifiche – dell’opera stessa, dell’arte e dei suoi movimenti – ora molto generiche – della sua funzione di testimonianza culturale e quindi storica.