Trasformazioni ed eventi

Che senso ha ideare un evento culturale ai tempi dei grandi eventi, in un epoca in cui di eventi ce ne sono di tutti i tipi tutti i giorni e la saturazione è stata superata da un pezzo e quello che si offre alla nostra percezione è un indistinto rumore bianco? Per contro, è possibile creare un momento pubblico senza dare vita a un evento?

In qualunque modo si intenda rispondere a queste domande, siamo sempre dentro il perimetro del pensiero comune che ci chiede di confrontarci con il paradigma dell’evento e con le sue forme, ossia siamo dentro un regime comunicativo che vuole che ogni occasione pubblica assuma la forma dell’evento.

Porsi la domanda sulla forma dell’evento però, ci direziona verso la domanda sull’evento della forma. Posto che l’evento avviene sempre in una forma, ossia non può fare a meno di avere una forma e di materializzarsi in una certa organizzazione e manifestazione, invertire i termini della domanda, pensare cioè all’evento della forma, ci permette di intuire un senso diverso riguardo l’interrogativo che ci siamo posti, dove a essere problematizzato non è più solamente il momento dell’evento in una serie di forme date, ma l’emersione e il presentarsi delle forme, magari inedite e nuove. La prima opzione chiede: quale forma per quale evento? La seconda si domanda: come nascono le forme?

Sia come sia, se non affrontiamo queste domande siamo destinati a reiterare dei format, ossia di modelli normati e replicabili, delle procedure da seguire ed eseguire. L’affidamento a format testati innumerevoli volte, le riproposizione dell’identico, è un agire estremamente consolatorio, offre sicurezza, riconoscibilità, ma impedisce la sperimentazione, il rischio di fare qualcosa di nuovo, l’esercizio critico del fare, l’invenzione.

Le forme, d’altro canto, emergono con le pratiche e per mezzo di esse, le forme sono i segni delle pratiche e in un certo qual modo coincidono con esse. Il rapporto tra l’evento e la forma è tutto qui. Quindi la domanda da porsi potrebbe diventare: qual è la pratica culturale che stiamo agendo? Cosa stiamo facendo? Quale pratica culturale?

Il nostro agire non è senza conseguenze, si riverbera in mille modi nell’ambiente di cui facciamo parte, in modi spesso del tutto imprevisti e difficilmente comprensibili. Non ce ne rendiamo conto né possiamo prevedere le differenti variabili in gioco.

L’azione espone, ma non solamene alle reazioni degli interlocutori o alle conseguenze delle nostre azioni. L’azione ci espone perché ha a che fare con la visibilità, con i corpi: se fai qualcosa io ti vedo. Prima ancora di venire a sapere il senso dell’azione, io la vedo: la visibilità dell’azione viene prima del sapere descrittivo o del suo senso. Venire a sapere qualcosa è possibile solo se l’atto è già accaduto in un altrove, poiché per venire a sapere qualcosa io non devo essere presente. E così l’azione, la sua visibilità, la sua esposizione, la sua disponibilità, si riverbera nell’ambiente che la rende possibile. Produce un cambiamento.

Va detto che questa visibilità conosce oggi uno sviluppo perverso, sempre più spesso l’evento non è vissuto, non se ne fa esperienza se non riprendendolo con uno smartphone, fotografandolo, condividendolo sui social. È un’esperienza mediata. Un esito dovuto a una tendenza in atto da molto tempo che le nuove tecnologie hanno esasperato e che porta a considerare l’evento un pretesto della comunicazione.

La visibilità subisce poi un’ulteriore interpretazione per la quale diventa moneta di scambio nella nostra società dell’informazione che fa della reputazione il nuovo metro dell’autorità.
Spettacolarizzazione diffusa, l’evento e la sua visibilità non sono più percepite come espressione di una volontà ma come un alibi per la promozione di sé o di altro.

Quanto detto non deve però impedire di riconoscere il legame tra l’azione, i corpi, la forma, la visibilità e l’evento, seppur mediatizzato. Ossia non può ostacolarci nel considerare il suo primato al fine della trasformazione, che è sempre decisione e incisione nel tessuto del reale.

Cosa stiamo facendo? Qual è quell’azione o insieme di azioni che implica una raggiera di accadimenti, in editoria e nel mondo culturale? Vendere libri? Produrli? Scriverli? La lettura? La ricerca? La formazione? Lo studio? Certamente sì, se pensiamo la cultura come un atto sociale il cui prodursi e dispiegarsi avviene attraverso una serie di azioni che si concatenano a vicenda.

Perché se le pratiche culturali posseggono dei modelli, sono quelli che abbiamo ereditato e fatto nostri, e di generazione in generazione modificato, adattato alle circostanze, forzato, innovato, trasmesso e rivoluzionato; è il nostro essere situati sulla linea del tempo a suggerircelo.

Il denominatore comune di tutte queste pratiche finalmente appare essere il dialogo, il confronto, l’ascolto, la relazione, l’apertura, la collaborazione, e la produzione culturale che non può non nascerne.