Partecipazione e condivisione come soluzione alla crisi greca

In queste ultime settimane la questione della crisi finanziaria europea e della modalità di riduzione del debito che la Grecia ha contratto con alcuni dei principali paesi della zona euro (Germania, Francia, Itali e altre istituzioni private ha interessato, e in alcuni casi mobilitato, decine di milioni di persone, consapevoli che la partita che si sta giocando va ben al di là delle stanze dei negoziati tra Grecia, Banca Centrale Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale.

Ci sono tre punti di vista tra loro intrecciati che è importante assumere per comprendere la portata della crisi economica, istituzionale e politica che si sta consumando nell’Unione Europea dal 2008 e che ha raggiunto un suo apice di drammatizzazione negli ultimi giorni. Il primo riguarda il modo in cui è stato condotto il confronto istituzionale tra la Troika e il governo greco, ed è quello che finora ha prevalso tra i contributi che ci è stato possibile leggere sui quotidiani e online.

La seconda prospettiva invece riguarda cosa possiamo avere imparato rispetto agli errori fatti nella costruzione dell’architettura istituzionale dell’unione monetaria e in che modo correggere tali problemi. Infine la terza prospettiva riguarda ciò che questa vicenda ci anticipa rispetto al futuro dello spazio politico democratico nelle nostre comunità nazionali e a livello europeo.

Molto inchiostro è stato usato e centinaia di articoli circolano online nel tentativo di offrire una rappresentazione di ciò che è accaduto nel corso della negoziazione per il sostegno finanziario all’economia greca e per la definizione di un meccanismo sostenibile di restituzione del debito. Ciò che sorprende però è come negli ultimi giorni gli eventi si siano accelerati, la tensione tra gli attori coinvolti sia rapidamente salita fino a sfiorare lo scontro diplomatico, le posizioni della Troika si siano differenziate rispetto a quelle delle istituzioni europee e si siano susseguite prese di posizione da parte di intellettuali, economisti, sociologi ed ex-protagonisti della trattativa che criticano aspramente il modo in cui si sono svolti gli incontri.

Queste prese di posizione si sono affastellate una sull’altra dopo che il 27 giungo il premier greco Tsipras ha dichiarato che prima di accettare le condizioni che gli erano state proposte avrebbe chiesto il parere del suo elettorato. Senza scendere nei dettagli degli interventi che negli ultimi giorni hanno marcato più di altri il campo del dibattito pubblico e intellettuale in merito al modo in cui è stata gestita la cosiddetta “crisi Greca”, e penso qui in particolare alle riflessioni di Joseph E. Stiglitz, Wolfgang Streeck, Paul Krugman, Thomas Piketty e Yanis Varoufakis, è possibile individuare alcuni aspetti che hanno dato forma a un confronto che appare come un fallimento se visto con gli occhi di quello che il progetto politico dell’Unione Europea ha finora preteso di essere. Osservando a caldo e a ritroso le ultime settimane di negoziato sembra che quello che Streeck identifica come il meccanismo di funzionamento del capitalismo democratico stia cercando di fare un salto di qualità in un contesto, quello europeo, finora caratterizzato da una discreta capacità delle istituzioni politiche di regolare la creazione della ricchezza e di agire come agenzie di redistribuzione, rendendo così l’Unione Europea la regione con il minor grado di diseguaglianza tra tutte le economie capitaliste del pianeta.

Questa peculiarità della storia economia europea viene tra l’altro affrontata e spiegata da Piketty nel suo ultimo libro Il capitale nel XXI secolo. L’indifferenza delle istituzioni della Troika alle proposte di revisione degli accordi per il rifinanziamento del debito, la durezza con qui sono stati congelati i negoziati nel momento in cui il governo greco ha deciso che era necessaria la consultazione democratica, la pressione mediatica e psicologica a cui è stato sottoposto il premier Tsipras, sono tutti indicatori che la fiducia tra gli stati membri necessaria per rivedere in modo sostenibile delle obbligazioni economiche, se mai sia stata effettivamente presente, è stata del tutto dispersa. Penso che sia però interessante chiedersi che cosa abbia favorito l’erosione di questa fiducia che, forse, molti di coloro che si interessano della politica europea, dai semplici lettori interessati agli addetti ai lavori, hanno dato per scontata.

Nei media ufficiali e nelle dichiarazioni pubbliche durante la negoziazione la Grecia è stata raffigurata come uno studente che non fa i compiti a casa, come uno stato scialacquatore che non vuole assumersi le proprie responsabilità, oppure come un paese egoista che non vuole confrontarsi con gli sforzi effettuati dagli altri paesi membri che prima di lei hanno introdotto politiche di revisione della spesa pubblica. Se decidiamo di assumere per vere le dichiarazioni rilasciate dall’ex Ministro dell’Economia greco la rappresentazione del rapporto tra Grecia e Troika assume dei contorni del tutto diversi. Viene descritto un contesto negoziale in cui alle argomentazioni economiche si è risposto con una chiusura politica nei confronti di qualsiasi proposta non andasse nella direzione di una privatizzazione delle risorse pubbliche e una riduzione drammatica delle politiche di welfare.

La sostenibilità economica non era sul tavolo del negoziato, la riforma dello Stato Greco era l’unico argomento. L’impressione è che sia andato in scena un abbraccio inscindibile tra un’ideologia politica anti democratica e argomentazioni tecniche basate sulla presunta neutralità di modelli econometrici che si sono rivelati, per usare un eufemismo, incapaci di predire gli scenari economici e l’evoluzione dell’economia greca nell’ottica di ottenere una maggiore sostenibilità del debito e di offrire garanzie della sua restituzione.

Questa visione tecnocratica della gestione di rapporti politici tra paesi è poi alimentata da un discorso pubblico intriso di una visione morale dell’economia in cui il debito è considerato una colpa da espiare e l’espiazione nella cultura cristiana che permea volenti o nolenti il nostro orizzonte di pensiero può passare solo attraverso il pagamento di un corrispettivo e la mortificazione. Il libro che David Graeber ha pubblicato qualche anno fa, ben prima che il debito greco occupasse gran parte dell’agenda economica europea, illustra in modo dettagliato il nesso tra produzione del debito, costruzione della colpa e le relazioni gerarchiche che questo meccanismo garantisce. La sua lettura alla luce di ciò che succede in queste settimane ha un che di premonitore.

Ma cosa ci ha insegnato la crisi Greca a proposito del funzionamento delle istituzioni europee? In merito a questo tema un interessante scambio di opinioni si è tenuto il 9 luglio a Sciences Po, Parigi. L’incontro ha affrontato le prospettive istituzionali e politiche che è possibile ipotizzare a partire da questo momento di forte perturbazione delle relazioni politiche tra i paesi membri dell’UE. La proposta espressa da Piketty si basa su alcuni elementi centrali. È necessario riformare le istituzioni europee per far sì che il si attui una completa socializzazione della porzione di debito pubblico di ogni paese per la quota che eccede il 60% del PIL, per garantire un processo decisionale più democratico bisogna costituire un nuovo organo decisionale i cui membri siano nominati in seno ai parlamenti nazionali in modo proporzionale al numero di cittadini rappresentati, è basilare avviare una politica comune per mettere fine alla competizione fiscale tra paesi. L’interesse di questa proposta risiede sicuramente nel suo essere funzionale a rispondere in modo integrato ai problemi che hanno portato all’impasse decisionale, alla crisi socio-economica greca e alla tensione politico-istituzionale.

La reazione di Streeck e le sue obiezioni si sono però concentrate sulla scarsa fattibilità di una simile soluzione. Ciò che infatti manca nella proposta di Piketty, forse per la sua formazione economica che lo porta a privilegiare soluzioni formali, è l’esplicitazione delle azioni concrete che possono condurre a tale riforma radicale. Lo spazio politico per poterla realizzare è estremamente limitato per almeno tre ragioni. La fiducia tra paesi membri è al minimo storico dall’introduzione della moneta unica. La retorica del discorso che ha guidato le negoziazioni è quella della garanzia a qualsiasi costo degli interessi dei creditori, siano essi paesi membri o istituzioni private, a totale discapito delle questioni relative alla coesione sociale che almeno finora è stata uno dei pilastri del cosiddetto modello sociale europeo. Il progetto politico dell’UE è oggi percepito come un costo sociale ed economico enorme da parte di fasce sempre più ampie delle società nazionali, una maggiore integrazione europea gode dunque di uno scarsissimo consenso sociale.

Infine penso che sia interessante cominciare a discutere cosa significhi questa vicenda per la vita democratica in Europa. Mettendo insieme i tre punti qui riportati, si arriva facilmente alla considerazione che non si tratta solo una crisi economica o finanziaria, è qualcosa di più profondo. Siamo di fronte a una crisi finanziaria gestita dalla politica andando contro ciò che gli stessi economisti attenti ai fragili equilibri del rapporto tra democrazia e capitalismo suggeriscono. L’obiettivo oggi sembra piuttosto quello di mettere tacere e punire le velleità di uno Stato che ha cercato di correggere le ricette della troika, trovando in realtà l’appoggio del FMI su alcuni aspetti considerati irricevibili dalle istituzioni europee, al fine, evidentemente inaccettabile per i mercati finanziari, di proteggere la vita, la dignità e il futuro di milioni di persone. Le crisi spesso sono occasioni per profondi cambiamenti. In base al percorso seguito sinora dal progetto politico ed economico dell’UE ci si sarebbe potuti anche aspettare che in un momento di crisi si trovassero gli strumenti per gestire il problema in modo collettivo e perseguire l’interesse generale di tutti i membri dell’area euro.

La scelta è stata diversa: si è colta l’occasione per sancire in modo inequivocabile che il modello sociale europeo deve essere rimesso in discussione, che le politiche monetarie non devono rispondere alle istanze democratiche e che chi si oppone deve essere punito e condannato pubblicamente per la sua irresponsabilità. La prevalenza della logica dei mercati finanziari può aiutare a capire il motivo di tale preoccupante inversione di rotta. Sono arene economiche in cui la prospettiva temporale del profitto varia tra pochi secondi e poche settimane, in cui le basi per l’accumulo della ricchezza non sono connesse né a un territorio né a una dinamica produttiva collettiva, sia essa gerarchica o cooperativa. Se le istituzioni politiche si mettono al servizio di tali forze economiche è estremamente difficile che riescano a esprimere una tensione verso il futuro a lungo termine che tenga conto dell’interesse collettivo e non di pochi influenti attori economici.

Cosa riserveranno i prossimi mesi e anni è difficile dirlo. Per quel che riguarda il presente invece dei suggerimenti si possono trovare nell’esempio greco. Se l’espressione chiara della volontà del popolo greco di non sottostare all’ortodossia del capitalismo finanziario è stata in grado di disvelare le dinamiche di potere in gioco e ha aperto lo spazio per un dibattito pubblico che prima rimaneva sottotraccia, forse la strada da perseguire è, ancora una volta, quella della partecipazione politica e della mobilitazione di tutti coloro che al profitto di pochi preferiscono la dignità di molti.