Musei e territorio: uscire dal doppio vincolo

Bateson descrive il «doppio vincolo» come una situazione contestuale che impone regole contradditorie, alle quali insieme è impossibile rispondere, a meno di un’invenzione creativa, prodotto di una mente evoluta (1969). Cita come esperienza una focena ammaestrata che come sempre viene indotta ad esibirsi con giravolte e, improvvisamente, non viene più premiata dopo un certo passaggio. La focena prova e riprova con le modalità consuete, e viene frustrata, ma alla quarta volta fa una serie di capriole del tutto innovative e poi si presenta come a dire: allora volevi che io cambiassi le regole!!
Insomma il doppio vincolo spinge la mente evoluta a inventare, a innovare.

Nella Repubblica di Focenia, il ministro del MIBACT Focenaschini si esibisce in una difficilissima prova: innovare le modalità di gestione del sistema museale, in un paese che vanta alcuni musei d’eccellenza mondiale e centinaia di altri musei e beni culturali, che nell’insieme documentano una storia e un’arte «che tutto il mondo invidia».
Il Ministro capisce immediatamente che il contesto in cui agisce è quello tipico del doppio vincolo.

Da una parte infatti è evidente l’esigenza di rinforzare la potenza organizzativa, comunicativa e gestionale dei musei, che sono per lo più ancora allestiti con criteri ottocenteschi, inadatti a far fronte a grandi numeri di visitatori, spesso «ingenui» e da accompagnare alla comprensione di capolavori complessi e ricchi di sfaccettature.

Questa condizione generalizzata diventa impressionante nei musei statali più importanti, per lo più gestiti da funzionari del ministero non specializzati. Le modalità organizzative per lo più continuano la tradizione secolare che concepisce il museo come conservatoria più che come esposizione, con personale più dedito alla custodia che alla presentazione, con pochi o nulli investimenti per nuove sistemazioni e apparti comunicativi tecnologicamente à la page.

Infatti anche il bilancio economico dei musei statali è in attivo solo in rari casi, quando invece ci sono esempi di raccolte private o di altri enti che seguono il modello dei grandi musei stranieri, ormai pienamente sostenibili con gestioni aggressive fatte di grandi mostre, di ricco merchandising, di efficiente sistema di bigliettazione, di stimolante promozione pubblicitaria.

Dall’altra parte bisogna tener conto del territorio, quell’insieme che attrae, che nella maggior parte dei casi motiva il viaggio, che rende il Paese famoso ben al di là dei musei. E’ un sistema ricchissimo fatto dalle città d’arte, dai paesaggi, dalle grandi architetture isolate, dai beni immateriali, dalla miriade di luoghi plasmati dalle competenze artistiche diffuse in 2000 anni.

Ma la gestione culturale del territorio che il Ministro si trova di fronte è tutta orientata alla tutela. L’impegno del ministero conta solo su competenze di funzionari che hanno dedicato la vita ad arginare le malefatte dei processi urbanizzativi, delle trasformazioni industriali e infrastrutturali prepotenti e maldestre, del degrado che attanaglia monumenti abbandonati e privi di manutenzione. I funzionari sono pochi, isolati e senza confronti, sempre meno quelli davvero competenti, e combattono ogni giorno con procedure burocratiche poco efficaci e con una grande disparità di mezzi rispetto alla marea di controlli e monitoraggi che devono affrontare. Nei rari interventi il criterio di valorizzazione affianca quello di tutela solo da pochi anni, ed è guardato con sospetto da molti dei tecnici più attenti, visto che in esperienze poco riuscite ha funzionato come cavallo di Troia per veicolare sconcezze e abusi.