L’insostenibile leggerezza del benicomunismo

Cos’è il «benicomunismo»? Tanto per iniziare, un neologismo. Lo ha registrato la Treccani come sostantivo maschile composto dal s.m. «bene» e dall’aggettivo «comune» con l’aggiunta del suffisso «ismo»; la sua definizione indica un «Filone di pensiero e movimento d’opinione contrari alla privatizzazione dei beni considerati comuni e favorevoli a una gestione più estesa e partecipata».

Seguono, nella voce d’enciclopedia, stralci di articoli giornalistici, prova dell’uso – e dunque dell’esistenza – del termine e dell’oggetto che il termine designa. Su «Europa», Francesco Clementi, il 25 maggio del 2013, scriveva che «dal singolare al plurale, abbandonata la retorica dei beni pubblici per quella dei beni privati, oggi pare trionfare a sinistra il benicomunismo.

Che diviene mantra e, per alcuni, addirittura manifesto, portando ad eccessi sublimi: basti pensare all’occupazione ad libitum – altro che simboli! – del Teatro Valle a Roma in nome della libertà di espressione e dell’“amare le pratiche orizzontali” (sic!)». E sulla terza pagina della «Stampa», il 26 luglio dello stesso anno, usciva un articolo di Massimiliano Panarari dal titolo tuonante: «Uno spettro s’aggira a sinistra: il “benicomunismo”», e via di seguito il catenaccio: «Dall’acqua alle foreste, dai farmaci essenziali al Web, i beni comuni come terza via tra Stato e mercato che conquista sempre più adepti».
Il termine era stato introdotto nel dibattito politico l’anno prima, nel 2012, a pochi mesi di distanza dai referendum sui servizi pubblici, sull’acqua e sul nucleare. Era stato introdotto con intento canzonatorio – è stato adottato con orgoglio dai bersagli della canzonatura, ovvero dagli ideologi che «in nome dei beni comuni, si sta[nno] battendo per la rifondazione di un settore pubblico autorevole e partecipato da contrapporre a privatizzazioni e liberalizzazioni».

Ugo Mattei

Ho citato la definizione di Ugo Mattei – avvocato cassazionista e professore di diritto civile all’Università di Torino e di diritto internazionale & comparato all’Università della California – tratta dalla prima pagina del suo ultimo libro, pubblicato nella serie delle «Vele» Einaudi, Il benicomunismo e i suoi nemici. Mattei è anche fra i redattori dei quesiti referendari del 2011 e patrocinatore degli stessi, per due volte, presso la Corte costituzionale. Sulla materia, ha pubblicato tra gli altri scritti «Beni comuni. Un manifesto» (Laterza, 2011), quello al quale faceva presumibilmente riferimento Francesco Clementi nell’articolo di cui sopra.

Chi sono dunque i nemici del benicomunismo? Il sarcasmo appena esemplificato, ad esempio, ma anche i detrattori di ogni tipo, vengano essi da destra o da sinistra, oppure dall’accademia (quella italiana, «sempre più frustrata a causa del suo sistematico svilimento»). A un livello più profondo, cioè strutturale, cioè ideologicamente e storicamente, i nemici del benicomunismo sono altri due -ismi: il (neo)liberalismo, da una parte, e lo statalismo dall’altra.

Il benicomunismo indica insomma una terza via, oltre le dittature del capitale e di un «sistema pubblico autoritario, burocratico e corrotto dal legame di dipendenza con le grandi corporations private» com’è nei casi, riportati da Mattei, del business nucleare e del «cosiddetto “partito delle grandi opere”». È una terza via che passa anche da un «doppio e non negoziabile rifiuto»: del positivismo scientifico e del «pensiero disciplinato, ossia quello che costruisce specialismo accademico».

Tali rifiuti implicano una serie di ulteriori dualismi che il benicomunismo propone di superare: fatti/valori (i.e. essere/dover essere), scienze naturali/scienze sociali, natura/cultura, tecnica/politica, scienza/arte ecc. «Soltanto un pieno e caparbio rifiuto teorico di tutte e ciascuna di queste contrapposizioni dominanti» scrive Mattei «libera la mente del teorico dei beni comuni e gli apre le porte di quel mondo del potrebbe essere che sfonda le barriere tra fatti e valori e ci consegna nuovamente il mistero, lo stupore e la fantasia, i grandi esclusi della dimensione capitalistica che tutto cerca di misurare per insistere in un assurdo discorso sull’oggettività».

Il benicomunismo è per Mattei (anche) una posizione filosofica, in grado di offrire «un terreno assai fertile» alla «critica del cogito cartesiano, della separazione ontologica tra soggetto e oggetto». Sono espliciti i riferimenti alla fenomenologia («la natura altro non è che una grande rete di interrelazioni»; il benicomunismo è un «autentico […] in senso fenomenologico […] tentativo di pensare i beni comuni») e probabili le derivazioni dal pensiero relazionista di Enzo Paci, e non soltanto perché Mattei (intervistato a «Fahrenheit», trasmissione di Radio Rai Tre) definisce il bene comune non come una categoria merceologica, e nemmeno ontologica, ma come una «relazione» – al pari del capitale, oltretutto – ovvero una serie di «rapporti di tipo qualitativo tra persone, mondo, ecologia e tutto quant’altro», qualcosa che viene «riconosciuto all’interno delle prassi», da cui la sua «tipologia molto ampia, dal lavoro alla cultura, all’acqua ai ghiacciai» ecc.; qualcosa che diventa bene comune perché «una comunità lo riconosce in quanto tale e decide di volerlo tutelare».

Le derivazioni dal relazionismo di Paci sono probabili, dicevo, non soltanto per la coincidenza lessicale; la familiarità tra benicomunismo e relazionismo è suggerita innanzitutto dalla medesima esigenza di superamento dei vecchi, classici, dualismi. Nel caso di Paci, si trattava di superare tanto l’idealismo quanto il realismo – ecco un brano da «Tempo e relazione» (Taylor, Torino 1954): «Intendo per filosofia della relazione quella filosofia che non considera come centro creatore della realtà un Identico, una causa prima insuperabile, ma che pensa invece la realtà come un rapporto tra più elementi di cui nessuno è identico a se stesso e di cui nessuno è tale da far dipendere in modo assoluto gli altri da sé». (È utile ricordare, e non è un caso, che il relazionismo, con la sua idea di «interrelazione universale», sfociò in una riscoperta della fenomenologia alla fine degli anni Cinquanta.)

Anche, ma non solo, per le sue implicazioni filosofiche, il benicomunismo offre interessanti spunti di riflessione, in grado di appassionare: il suo successo, secondo Mattei, è del resto nella «capacità di parlare al cuore e alla fantasia delle giovani menti». Ad esempio quelle giovani menti che hanno dato vita all’esperienza del Teatro Valle di Roma occupato o dello spazio Macao a Milano. L’esperienza del Valle, con quella dell’Azienda speciale partecipata Abc (Acqua Bene Comune) a Napoli, sono più volte citate nel libro a mo’ di puntello, per dimostrare che applicare il benicomunismo, inteso come forza di trasformazione «costituente» in una dimensione giuridico-amministrativa che si svolge sul terreno già «costituito», è possibile. Raramente, però, l’autore entra nel dettaglio, quasi mai; né utilizza i suoi esempi per mostrare le «prassi», l’applicabilità della teoria, quando invece avrebbe giovato al lettore la proposta di qualche «case history».

Gian Maria Volontè, La classe operaia va in paradiso

Oltre le molte suggestioni – alle quali aggiungo la seguente, secondo cui il costo del voto, «da quello dell’informazione necessaria per esprimerlo, a quello del trasporto sino al seggio, è dal punto di vista personale uno spreco», da cui segue che il voto è «un atto generoso verso il corpo sociale», costituente «sempre» un «atto di fede», generatore a sua volta della «realtà politica» – e oltre la condivisibilità dei giudizi – si veda quello sul ceto politico italiano, «la cui rappresentatività è oggi quantomeno dubbia» – il libro mostra una criticità laddove ripete oltremodo, nella pur brevissima distanza di centoquattro pagine, i suoi principi anti-dualistici, mancando per converso di approfondire – concetti quali innovazione e sostenibilità – e di entrare nel dettaglio e di proporre soluzioni.

Un caso per tutti è l’argomento «lavoro cognitivo», con la mole di problemi che porta seco, dal precariato all’autosfruttamento alle mancate retribuzioni, problemi che vanno moltiplicandosi nel crescente campo di intersezione tra lavoro cognitivo e piattaforme digitali, e tra lavoro cognitivo e Rete. Ecco appunto, a proposito di Rete, un altro problema: la proprietà intellettuale. Si domanda Mattei: «Quale autore creerebbe se non gli fosse riconosciuto il diritto di escludere dall’uso della sua creazione chi non gli riconosca una somma di danaro?». Risposta: «Proprio la rete ha mostrato […] la miopia e la strumentalità di domande cosí poste, che si prestano a offrire un supporto ideologico a pratiche estrattive, monopolistiche e abusive di ogni tipo. La rete internet, infatti, presenta le caratteristiche strutturali almeno apparenti di un gigantesco bene comune cognitivo, sottoposto a un sempre piú evidente processo di recinzione da parte dei suoi grandi latifondisti, le compagnie multinazionali che ne controllano i contenuti. Sempre piú numerosi sono infatti i siti a pagamento, e sempre piú verticale è l’accesso alle informazioni». Vero. Ma rimane il problema della sostenibilità di un modello che garantisca la gratuità dei contenuti senza farla pesare sui «lavoratori cognitivi» che quei contenuti producono.

Come l’autore scrive qualche riga più sotto: «non è questa la sede per approfondire tali tematiche». Vero anche questo. Ma ci si augura allo stesso tempo che aprano presto sedi adeguate per approfondirle, le tali tematiche, e che il dibattito sui beni comuni prosegua, non senza teorizzazioni, ma con teorizzazioni che parlino anche ai non addetti ai lavori, e che siano più funzionali alla prassi, anche a costo – che male ci sarebbe? – di qualche concreto precettismo.