La necessità di un giornalismo di contesto

“Nel caso di Oggi, circa metà degli utenti unici accede al sito via mobile. Mal si presterebbe allora un articolo di approfondimento su uno schermo di uno smartphone o di un tablet. Il web, però, può dare maggiore spazio alla posta dei lettori (…)”.

Parola di Umberto Brindani, direttore del settimanale Oggi, che con un paio di righe apparse in un’intervista su Italia Oggi (e che ho recuperato dalla pagina Facebook di Wolf, la nascente newsletter per addetti ai lavori e appassionati di giornalismo e comunicazione) fa piazza pulita di quella che è stata l’evoluzione dell’informazione online negli ultimi anni. E ci riporta indietro al dogma della santa trinità del giornalismo online. Quella secondo cui il cellulare è il regno delle breaking e snack news, il computer delle notizie da leggere con calma e la carta quello dell’approfondimento.

Grazie a Brindani, ho scoperto che di aver commesso un errore colossale a leggere il celebre e incredibilmente lungo pezzo dell’Atlantic, What Isis Really Wants sullo schermo del mio iPhone (non plus), così come voi state sbagliando se vi state accingendo a leggere questo articolo su mobile. D’altra parte, secondo il direttore di Oggi, “un articolo di approfondimento mal si presta alle dimensioni dello schermo di uno smartphone o di un tablet”. Un’affermazione che fa a botte con tutta l’evoluzione del mobile, che non solo ci ha portato a tenere in tasca smartphone con display sempre più grandi, ma che si è concentrata anche sull’ottimizzazione dei siti internet per il mobile, diventati sempre più responsive – pronti quindi ad adattarsi al formato del device su cui li leggeremo – e i cui articoli hanno caratteri sempre più grandi. Così come sembra passare sotto silenzio il fatto che oltreoceano, ma anche in Europa (e addirittura in Italia!) c’è tutto un proliferare di siti nativi digitali (quindi, senza controparte cartacea) che si occupa di longform e di approfondimento di qualità, senza interessarsi in alcun modo alle news del momento.

Ecco, le parole di Brindani alimentano il sospetto che la classe dirigente giornalistica italiana (chiamiamola così, che rende l’idea) ai vertici dei grandi gruppi editoriali sia completamente impreparata ad affrontare le sfide del futuro. Con il rischio che in Italia si continui ancora a dipingere internet (solo) come il regno della velocità e dell’immediatezza.

Certo, nessuno può negare che l’immediatezza sia una delle caratteristiche di internet. Una caratteristica decisiva, fondamentale, che ha rivoluzionato il concetto stesso di breaking news; ciononostante, ci sono altri aspetti di internet che sono altrettanto importanti, e che per qualche strana ragione non vengono mai presi sufficientemente in considerazione.

Una caratteristica di internet, per esempio, è che le notizie apparse sulla rete rimangono online (potenzialmente) per sempre. Sono sempre rintracciabili, in primis via Google, e in molti casi continuano ad attirare lettori anche parecchio tempo dopo essere state pubblicate (a maggior ragione, ovviamente, se rimangono interessanti). Il paradosso, quindi, è che molti direttori ritengono che le analisi approfondite vadano collocate solo sui giornali di carta, che a fine giornata vengono buttati via; mentre le testate online debbano limitarsi a dare le news di giornata, lasciando del tutto inutilizzato un enorme potenziale.

A fare le spese di una logica di questo tipo è l’informazione, sia dal punto di vista del lettore che da quello del giornalista e dell’editore. Partiamo dal lettore, prendendo a prestito quanto scritto da Carola Frediani su Medium: “Avete mai provato ad aggiornarvi su una grossa e complicata breaking news senza aver iniziato a seguirla dall’inizio? Avete mai provato ad approfondire il tema Daesh solo a partire da un articolo sull’ultima dichiarazione di Abu Bakr al-Baghdadi? È faticoso e insoddisfacente. I social vi aiutano in questo? Poco”. Già, i social aiutano davvero poco, visto che (pure loro) sono utilizzati in maniera non del tutto comprensibile solo per le breaking news e le non-notizie pensate per il click-baiting.

Jannis Kounellis

Perché se leggo su Repubblica.it le ultime notizie sulla riforma del Senato mi trovo sempre e solo davanti a una sfilza di dichiarazioni che nulla aggiungono alla mia conoscenza della materia? Non sarebbe molto più utile se le notizie del giorno venissero inserite all’interno di un articolo che approfondisce l’argomento, in maniera chiara, semplice, ma esaustiva? Invece, nella maggior parte dei casi, un’analisi del meccanismo alla base della riforma del Senato trova il suo spazio solo sul cartaceo, nell’articolo del giorno dopo l’approvazione alla Camera o al Senato. Sui siti dei quotidiani maggiori, tutto questo non si trova mai. E così, i lettori – che sono comunque interessati a capire come funziona la riforma in questione – si affidano a Google.

La domanda, a questo punto, sorge spontanea. Perché sul web ci sono così pochi articoli che analizzano il contesto all’interno del quale le notizie del giorno si inseriscono? Perché, quand’anche sono presenti, non sono valorizzati a sufficienza, e vengono rifatti da cima a fondo ogni volta che ce n’è bisogno? La risposta che la maggior parte degli editori probabilmente darebbe alla prima di queste domande è che gli articoli di contesto “non generano abbastanza visualizzazioni”.

E quindi, è il caso di fare un esempio pratico: uno “spiegone” sulla riforma del Senato che ho scritto per una testata online non appena sono usciti i primi dettagli, curandolo assieme ai colleghi in tutti i mesi successivi e riuscendo a posizionarlo ottimamente su Google proprio per via della cura che gli è stata dedicata, ha totalizzato a oggi qualcosa come 196.617 visualizzazioni di pagina (partendo dall’aprile 2014); un pezzo su un tema che colpisce le persone più da vicino, come il Jobs Act, ha raggiunto la cifra monstre di 746mila pageviews.

Ovviamente, si tratta di due argomenti di cui si è parlato tantissimo, che hanno trovato un po’ ovunque i loro “che cos’è e come funziona”; ma che comunque dimostrano, numeri alla mano, come i pezzi di contesto vadano a offrire al lettore ciò che su internet cerca: un approfondimento chiaro che lo aiuti a interpretare ciò che sta succedendo. E questa richiesta del lettore si può sfruttare in mille modi diversi, approfittando delle ricerche fatte su Google per offrire informazione di qualità e chiarire il contesto in cui quella particolare notizia del giorno si inserisce.

Il Post ha fatto la sua fortuna con il celebre “spiegato bene”, ma non si può pensare che un’opportunità del genere sia prerogativa del Post o che sia già stata sfruttata nella sua interezza. In verità, riprendendo ancora le parole di Carola Frediani, quello del giornalismo di contesto “rimane ancora un buco — per certi versi, una voragine — in cui chi fa giornalismo dovrebbe tuffarsi da subito”. E invece ci si trova spesso davanti a un muro, come se non si stesse parlando di qualcosa che premia tutti: lettori che trovano quello che cercano, giornalisti che possono approfondire un argomento, editori che conquistano le loro agognate pageviews senza rimetterci in credibilità.

Gli spazi, invece, sono infiniti: basti pensare a quante domande si pongono le persone interessate ogni qualvolta c’è una crisi tra due nazioni, ogni volta che la borsa crolla, che il prezzo della benzina scende o sale all’improvviso. Ogni notizia davvero importante porta con sé un contesto che troppo spesso viene dato per scontato, ma che i lettori hanno fame di conoscere.

Seppur con ritardo, almeno oltreoceano e oltremanica le cose stanno iniziando rapidamente a cambiare. Una delle novità di cui si è parlato negli ultimi mesi sono, per esempio, i Particles del New York Times. Di che si tratta? Cercando di farla il più semplice possibile, il laboratorio di ricerca del NYT ha sviluppato una teoria secondo la quale il singolo articolo è un insieme di particelle (appunto, Particles, che però è anche un gioco di parole con “article”). Ogni particella (che può essere anche un solo paragrafo) di un articolo può essere catalogata con estrema precisione, attraverso le classiche tag e le categorie. In questo modo – e questo vale soprattutto per gli approfondimenti – non si butta via tutta l’informazione che si è creata ogni volta che si scrive un nuovo articolo, ma si possono riutilizzare – limandoli e migliorandoli – pezzi di informazione “evergreen”.

Ribaltando la logica, ma rimanendo sempre all’interno della necessità di offrire al lettore un approfondimento fatto nel migliore dei modi, si può guardare al lavoro che sta facendo il Washington Post con la sua “knowledge map”: “Vogliamo fornire un’informazione di background nel momento in cui il lettore sta leggendo un articolo, per aiutarlo ad avere il contesto di un argomento complicato. Abbiamo disegnato la knowledge map per funzionare in modo che non interrompa l’esperienza della lettura”, spiega Sarah Sampsel, direttore della strategia digitale del Washington Post. “La knowledge map rende la lettura un’esperienza ancora più personalizzata, fornendo accesso a informazioni aggiuntive nel momento in cui il lettore ne ha bisogno o le desidera”.

Quindi, se il lettore conosce già tutto dello Stato Islamico proseguirà la sua lettura come se fosse un normale articolo. Se invece ha bisogno di approfondimenti di vario tipo potrà far comparire all’interno della stessa pagina vari box di spiegazione, tendine che approfondiscono il tema (all’interno dell’articolo, quindi usando qualcosa di molto simile ai “particles” del NYT) e via così. Al momento, va detto, sembra che in alcuni articoli la funzione sia stata disattivata; ma questo non significa che la strada intrapresa non sia quella giusta, al netto dei tanti errori e imprecisioni che si possono compiere lungo il cammino.

In effetti, uno dei fallimenti più dolorosi per chi ha cuore l’approfondimento è quella della app Circa. Lo scopo di Circa era quello di riuscire a ridurre in diversi “pezzi” leggibili singolarmente le storie del momento, fornendo l’indispensabile contesto attraverso dati, mappe e quant’altro. Il fallimento è stato nel non riuscire a trovare un modello di business che andasse al di là della pubblicità o delle sottoscrizioni (sempre rifiutate), che ha impedito all’applicazione di trovare nuovi fondi e gruppi disposti a investire nel momento in cui ce n’è stato bisogno. Arrivando così all’inevitabile chiusura.

Ma che sia questa la strada da seguire per un giornalismo di approfondimento che incarni lo spirito stesso del web (al di là della istantaneità) è fuor di dubbio. E a dimostrarlo più di ogni altra cosa c’è il successo di “What Isis Really Wants”, il già citato fluviale pezzo dell’Atlantic di 10mila parole (parole, non caratteri) che è risultato essere il pezzo online di maggior successo del 2015.

Ebbene sì, il pezzo di maggior successo del 2015 non riguardava qualche “clamorosa scoperta a cui i medici non riescono a credere”, non riguardava dei gattini, non riguardava snack news lanciate su Facebook, ma un serissimo e lunghissimo pezzo che analizzava, fondamentalmente, il rapporto tra lo Stato Islamico e la religione musulmana.

La classifica dei “best read” è stata redatta da Chartbeat prendendo in considerazione due aspetti: le visualizzazioni e il tempo di permanenza sulla pagina. Niente di troppo innovativo, ma sicuramente un buon modo per unire l’aspetto quantitativo e quello qualitativo (pur in maniera approssimativa).

Ora, What Isis Really Wants ha avuto più di un milione di visite il giorno in cui è stato pubblicato nel febbraio 2015. Nei mesi seguenti ha continuato a generare traffico costante con circa 10mila visualizzazioni al giorno. Il giorno in cui ci sono stati gli attacchi a Parigi sono arrivati altri 1,9 milioni di visitatori (quindi, più che nel primo giorno).

Il successo è dovuto da una parte alla fama dell’Atlantic (che sta lavorando benissimo sul web), da un’altra alla fidelizzazione dei lettori, che si occupano di diffondere l’articolo rendendo virale anche ciò che virale, per sua natura, non è. Ma un ruolo essenziale, come prevedibile, l’ha giocato Google.

Lo spiegano gli stessi editor dell’Atlantic: “Facebook è stata la principale fonte, all’inizio, con Google e Twitter molto distanziati. Sul medio periodo, le cose si sono rovesciate, con Google che è diventato di gran lunga la principale fonte di traffico, anche nella notte in cui ci sono stati gli attacchi di Parigi”. Da notare anche come molti lettori siano tornati più di una volta sull’articolo, com’è normale in un pezzo che richiede più di un’ora di lettura (se ricordo bene).

Jannis Kounellis

In tutto ciò, rischia di passare in secondo piano un aspetto che ha giocato un ruolo essenziale nel successo di questo pezzo su Google: il titolo. “Che cosa vuole l’Isis” (omettiamo il “veramente”) è in effetti un tipico titolo SEO, che racchiude al suo interno la domanda così come le persone la formulano su Google. Il fatto che il pezzo venga aggiornato con costanza, il fatto che abbia avuto successo sui social network, il fatto che venisse linkato ovunque e che fosse molto lungo hanno infatti garantito a questo articolo di raggiungere un posizionamento ottimale su Google.

E così – alla faccia di chi si ostina a dire che la SEO è morta o che non si applica bene al giornalismo – ancora una volta si ha la dimostrazione di come Google possa essere un motore incredibile per coniugare giornalismo di qualità e numeri in quantità (come sottolineato dai redattori dell’Atlantic, nella notte degli attacchi di Parigi i quasi 2 milioni di visitatori sono arrivati soprattutto da Google).

Al di là del caso straordinario dell’Atlantic, l’importanza di un giornalismo di contesto è qualcosa che dovrebbero tenere davvero a mente anche i tanti editori italiani a corto di budget. Il giornalismo di contesto permette di dare al lettore ciò che cerca, informazioni utili e approfondite, senza spendere quantità immense di soldi e facendo fare al giornalista, in molti casi, un più che dignitoso lavoro di divulgatore al servizio del lettore e soprattutto rendendo possibile all’editore coniugare un’alta qualità con un’importante quantità di visualizzazioni.

La ragione per cui ancora così poco si sta investendo in questo campo, puntando tutto sulla viralità di Facebook che così tanti danni sta facendo sotto ogni punto di vista, rimane davvero un mistero.