Benveniste alla guerra: fare ricerca indipendente in crowdfunding

Sono un ricercatore indipendente, che è un altro nome per dire precario, ma preferisco l’accezione di questo termine che significa che non ho gruppi di ricerca di affiliazione o scuole, cordate, lobby d’appartenenza, non riconosco il sintagma il mio professore, non ho una mia università, né una mia cattedra. Mi occupo di storia delle idee delle scienze del linguaggio e di filologia dei manoscritti dei linguisti.

A settembre 2014 ho avuto l’idea di fare un crowdfunding per finanziare una ricerca e a maggio 2015 ho lanciato il progetto: https://wemakeit.com/projects/emile-benveniste-durant-la-guerre-1939-44. La campagna è terminata a giugno: avevo chiesto 5mila franchi svizzeri ne sono riuscito ad avere quasi 6mila. Il finanziamento serviva per avere il tempo di scrivere degli articoli e avere i mezzi per la ricerca in alcuni archivi tra Francia e Svizzera. La ricerca di cui volevo occuparmi è nata quando tra altre carte d’archivio ho ritrovato una lettera del 1943 di un professore di Friburgo, Jean de Menasce, indirizzata ai linguisti Charles Bally e Albert Sechehaye. In questa lettera de Menasce chiedeva aiuto per far uscire da un campo per rifugiati in Svizzera Emile Benveniste, linguista, francese di origini israelite, tra i più importanti e negli anni seguenti diventerà molto noto nelle scienze umane.

Il 1939 Benveniste insegnava al Collège de France, ma con lo scoppio della guerra è chiamato alle armi. Resterà prigioniero di guerra per 18 mesi, quando finalmente riuscirà a evadere rifugiandosi nella Zona Libera nel sud della Francia. Ma Benveniste è di nuovo costretto a scappare e allora passa la frontiera svizzera clandestinamente nel 1943. Fermato dalla gendarmeria svizzera, sarà messo nei campi per rifugiati. Aiutato da diversi ricercatori e persone private, resterà un anno in Svizzera e rientrerà a Parigi nell’autunno 1944.

Uno dei fattori che mi hanno portato all’idea di fare un crowdfunding è aver notato la situazione di precarietà e dei problemi simili tanto tra i ricercatori che tra gli artisti e dopo aver sentito storie su tutti i due fronti. La stessa vita economicamente instabile, discontinua e con prospettive incerte. Una vita fatta di dossier da presentare, soldi da trovare, lavori alimentari da tenersi stretti, persone con cui parlare che forse potrebbero aiutarti, viaggi da affrontare, eventi cui partecipare, progetti su cui impegnare tempo senza la sicurezza di vederli finanziati e allo stesso tempo inviti a conferenze, pubblicazioni in diverse lingue e l’affitto in scadenza che non tiene conto dell’indice d’impatto o della recensione della mostra, una stabilità sempre da rincorrere ed energie da gestire.

Allo stesso tempo l’esperienza della ricerca e dell’esplorazione del sapere e la passione, si spera, al principio del mestiere. E siccome il crowdfunding era usato tanto dagli artisti e per eventi culturali, transitivamente ho creduto che avrebbe potuto funzionare anche per i ricercatori. Se fosse andata bene mi avrebbe permesso di finanziare la ricerca, al contrario anche senza il finanziamento, avrei avuto comunque un ritorno di visibilità per far conoscere la mia ricerca.

Ero da solo, quindi nel pianificare mi sono detto che avrei dovuto fare ogni giorno qualcosa per il progetto

Nel mercato della comunicazione scientifica, infatti, e con la precarietà, allora la ricerca diventa anche la reputazione attraverso la rete di contatti. La reputazione in un dominio specifico non solo potrebbe aiutare a trovare un contratto, ma anche fare in modo che le pubblicazioni siano lette e ci sia dell’attenzione verso la propria ricerca. L’attenzione da parte degli altri ricercatori, inoltre, potrebbe significare nuove collaborazioni e progetti. Basti pensare a dei siti come http://academia.edu o http://researchgate.net che mettono in contatto i ricercatori. Devo dire che per lanciare il progetto è servita un’attitudine disinvolta verso l’accademia. Non è detto che far parte dell’accademia significhi rinunciare a sperimentare soluzioni di finanziamento alternativo, ovvero decidere di non dover passare da canali canonici spesso gestiti da poche persone disposte nei vari dipartimenti o mettersi, ancora peggio, in una posizione d’attesa per essere considerati in progetti di ricerca o per contratti o ancora per posti di lavoro stabili.

Certo ero da solo, quindi nel pianificare il crowdfunding mi sono detto che avrei dovuto fare ogni giorno qualcosa per il progetto e strutturare bene il lavoro prima del lancio. Ho studiato i casi precedenti di crowdfunding nella ricerca, ma senza trovarne di simili. C’erano a mia conoscenza delle esperienze fatte da istituti di ricerca. Allo stesso modo ho guardato i crowdfunding in altri campi, il modo in cui comunicavano e la loro strategia di ricerca fondi. In seguito ho selezionato degli aspetti della mia ricerca che sarebbero stati più immediati da comunicare a un pubblico più ampio di quello accademico e che poteva essere già sensibile ad altre esperienze di crowdfunding.

Dopo aver preso tutte le informazioni necessarie, ho stabilito un piano di comunicazione preparando tutto il materiale: testi orientati a diversi pubblici (giornalisti o altri), immagini, girando un piccolo video esplicativo grazie all’aiuto di alcuni amici e allertando la mia rete di contatti riguardo al fatto che avrei lanciato questo progetto. Due erano le storie da comunicare: la prima era la ricerca che volevo finanziare; la seconda era la storia di un ricercatore che lanciava un crowdfunding.

Questo doppio registro narrativo mi ha dato la possibilità di comunicare sollecitando i possibili contributori a diversi livelli e le testate giornalistiche. In seguito, pensando al pubblico e al luogo e all’interesse su cui insisteva la ricerca, ho scelto la piattaforma di crowdfunding, impegnandomi così a rispettarne e a sfruttare gli standard. Infine, ho stabilito il montante da chiedere considerando che essendo solo non avrei realizzato una cifra troppo alta e ho fatto una stima di quanto avrei avuto bisogno per finanziare questa parte di ricerca. Dovevo tenere da conto, inoltre, che essendo la prima volta che un ricercatore lanciava un crowdfunding ci sarebbero potute essere resistenze nelle persone che si trovavano di fronte un oggetto nuovo.

Lanciato il progetto, ho seguito il piano di comunicazione che mi ero fissato per non lasciare possibilità intentante solo per disattenzione. Ho mandato mail ai miei contatti nell’accademia annunciando il lancio e gestendo la comunicazione con il mondo accademico. Periodicamente ho aggiunto notizie nella sezione news del progetto dando altre informazioni o comunicando il fatto che un giornale aveva parlato del progetto.

Ho aggiornato la pagina Facebook del progetto e il mio status personale. Ho rilanciato il crowdfunding su Twitter ogni giorno in diverse lingue e con vari hashtag. Ho provato a scrivere delle brevi note sfruttando i legami del progetto con alcune notizie di cronaca uscite negli stessi giorni del crowdfunding e leggendole con le lenti dalla ricerca. In questo modo speravo di ottenere valore comunicativo aggiunto e mostrare perché questa storia particolare che volevo raccontare fosse di attualità. Ho provato a scrivere a persone di rilievo, che grazie alla loro notorietà avrebbero potuto sollecitare altri contributori, ma nessuno ha mai risposto.

Ogni volta che qualcuno dava un contributo, ne davo notizia sui social network taggando i vari donatori per raggiungere anche i loro contatti e gratificando con moneta comunicativa il loro sostegno. In questo modo ho provato a consolidare la loro adesione al progetto e ho lavorato come se il mio fosse un brand e la partecipazione caratterizzasse i contributori in termini d’adesione al brand. In ogni comunicazione ho provato a tenere uno stile narrativo riconoscibile. Alla stessa maniera che per la scrittura se un testo è noioso per te lo sarà anche per gli altri e allora sarebbe stato noioso anche il progetto. Così ho provato a cercare una chiave narrativa che tenesse insieme la comunicazione.

Nella stessa direzione la scelta di un crowdfunding tutto o niente, ovvero che mi avesse dato il finanziamento solo al raggiungimento della cifra rientrava appunto nella poetica scelta per la comunicazione. In seguito anche quando l’obiettivo è stato raggiunto in anticipo sul timing ho continuato a comunicare per portare l’attenzione dei sostenitori sul progetto e non sulla contropartita economica.

Un aspetto che ha funzionato, oltre al lavoro di sollecitazione dei miei contatti, è stato chiedere a diverse persone, non un contributo economico, ma che si facessero sponsor del progetto. Se da un lato ho cercato visibilità sui social network e sui media, dall’altro lavoravo sui casi particolari. Non era sufficiente che condividessero la mia iniziativa sui social network – il rischio era che si perdesse tra le altre notifiche – ma che scrivessero una mail dal loro indirizzo privato ai loro contatti, quelli che loro ritenevano sarebbero potuti essere sensibili a questo genere di iniziative, presentando in tre linee la mia iniziativa e affermando il loro sostegno, scrivendo dunque una breve lettera di presentazione.

Un messaggio lasciato sui social network, nel mio ristretto numero di contatti, non sarebbe stato sufficiente perché soggetto all’impermanenza, mentre una mail non era ignorabile e restava a lungo nella lista dei messaggi e nel campo visivo. Ero interessato, infine, alla loro rete di contatti e alla moltiplicazione del messaggio tramite il passaparola, ero interessato all’uso dei legami deboli per consolidare ed estendere la diffusione del messaggio. Tutti quelli che hanno assecondato la mia richiesta hanno prodotto dei nuovi contributi e sostenitori.

Questo sistema di comunicazione a cascata attraverso il network dei miei contatti ha portato infine al contributore maggiore con 2mila franchi in un colpo solo, che ha permesso di superare il limite dei 5mila franchi a una settimana circa dalla fine della campagna.

Ho sollecitato anche i media classici – giornali e radio. Visto che era la prima volta che un ricercatore faceva una tale richiesta, avevo bisogno di essere supportato dai media in modo che le persone che s’imbattevano nella mia richiesta fossero rassicurate dall’opinione dei media e allo stesso modo avessero quel margine di deresponsabilizzazione legato alla fallacia ad hominem (se l’ha detto X, allora è vero) e che gli permettesse di aderire alla ricerca senza essere sopraffatti dai dubbi a causa della scelta del finanziamento del progetto. Alcuni giornali sono arrivati quando la campagna era già finita, aspettavano di vedere come sarebbe andata a finire probabilmente (IlFattoQuotidiano per esempio), ma hanno prodotto molta attenzione.

Essere arrivato al successo del finanziamento, ha fatto in modo di aver guadagnato ancora un extra del 10 percento, in gran parte nello stesso giorno del traguardo raggiunto e ancora adesso c’è chi vuole darmi dei soldi e siccome il progetto è chiuso offrono del contante. Si direbbe che tutti vogliono far parte di un progetto riuscito.

Gli accademici di altre nazionalità non hanno lesinato a contribuire, gli accademici italiani hanno mostrato incomprensione

Infine i dati. La mia campagna è durata un mese, i sostenitori sono stati 71 di nove diverse nazionalità e da sei diversi paesi di residenza e di età molto varia. A parte gli amici che sono in Italia o a Ginevra, per il resto i non conoscenti italiani, in particolare chi lavora in università, hanno contribuito molto poco (solo due di cui uno, è una conoscenza) quando ci si sarebbe aspettati un interesse maggiore. Ho provato a diffondere il progetto sui gruppi destinati ai ricercatori italiani, con esiti alterni: sulla pagina ROARS (Return on Academic Research) hanno eliminato il messaggio che avevo postato (ma non hanno cancellato quello di un giornalista che avendo pubblicato un articolo sul Corriere Università); un’altra pagina SIR (Scientific Independence of Young Researchers) è stata più tollerante e da qui ho guadagnato il mio solo contributore non direttamente collegato a me.

Gli accademici di altre nazionalità non hanno lesinato a contribuire, nonostante non li conoscessi direttamente, e che non solo hanno sostenuto il progetto, ma avendone l’occasione hanno sottolineato il loro entusiasmo per l’idea. Per quanto riguarda i commenti ricevuti e le affermazioni scambiate, infatti, se gli stranieri e gli italiani residenti all’estero implicati nella ricerca hanno sottolineato il loro interesse e hanno promosso il progetto (con dei commenti del tipo: «Ciao, ho solo 90chf per arrivare a fine mese, ma ne ho messi 50 nella tua ricerca.»; «Ciao, contribuisco a fine mese, perché vedo quanto mi resta e lo metto tutto nella tua ricerca.»), gli accademici italiani hanno mostrato incomprensione, qualcuno più miserabile degli altri ha polemizzato inscrivendosi nel filone delle spente diatribe da politica universitaria; c’è stata qualche presa di distanza, indifferenza e infine paura determinata forse dall’indipendenza dell’iniziativa. A qualcuno ho chiesto le ragioni e le risposte erano che non pensavano avrei fatto una cosa del genere e che quando avevano saputo avevano pensato «Si è giocato la carriera!». Allo stesso modo qualcun altro mi ha confessato di essere stupito, perché «non si fa mica così per i finanziamenti, no?».

Se ripetessi l’esperienza oltre a ciò che ho fatto, organizzerei un sito internet per promuovere il progetto al di là della pagina del crowdfunding, dove terrei un diario dell’iniziativa. Creerei una squadra di persone che mi supportino e che mettano insieme i propri network di contatti per promuovere il progetto e moltiplicare le possibilità di diffusione e, di conseguenza, allungherei il periodo del progetto a due mesi invece che a uno solo, perché potrei gestire la comunicazione su un periodo più lungo. Di certo organizzerei una presentazione del progetto nelle città su cui insiste l’interesse dell’argomento scegliendo diversi luoghi secondo il pubblico. Se lavorassi in un laboratorio, organizzerei una visita per mostrare dove si svolgerà la ricerca e raccontare i dettagli del progetto. Se avessi un corso all’università, allora farei passare la notizia del progetto tra le reti utilizzate degli studenti. Ancora chiederei ad altri crowdfunder in corso e passati di sensibilizzare i propri contatti verso il mio progetto creando reti di crowdfunding e di persone disposte a sostenere progetti simili e quindi condividere i sostenitori sensibili al finanziamento partecipativo.

A posteriori rifarei ancora questa esperienza. Le ragioni vanno dal consolidarsi della mia rete sociale alle nuove conoscenze fatte; dall’esperienza nella comunicazione alla fiducia negli esseri umani (sì, anche negli universitari); dalla sensazione di libertà di questo esperimento fino al tentativo di superare la solitudine di fronte alle difficoltà del precariato. Ho provato a saltare burocrazie e gerarchie cercando di essere indipendente, aggirando così la pratica quotidiana della ricerca di fondi e presentazione di progetti, che sottrae tanto tempo al lavoro scientifico. In contesti dove c’è la possibilità di presentare progetti di ricerca sia in modo indipendente sia in équipe – non so se l’Italia è uno di questi – per trovare finanziamenti si spende molto tempo, considerando almeno tra i tre (se sei esperto del soggetto di ricerca) ai dodici mesi per presentare un progetto e ottenere una risposta. Il crowdfunding non è la soluzione definitiva, ma può essere un buon sistema per far conoscere e comunicare l’importanza della ricerca. Riguardo l’entità dei progetti presentati, bisogna legarla alla quantità di persone implicate nel progetto e dunque alle loro possibili reti di contatti e alla comunicazione, ovvero alla strategia e alla capacità di utilizzare la comunicazione. In questo senso anche un progetto più ampio con un montante più elevato potrebbe arrivare a finanziamento.

Ho cominciato la ricerca e pubblicherò già un primo articolo. Nelle discussioni che sono seguite, qualcuno ha chiesto se delle campagne di questo tipo fanno bene alla ricerca scientifica? Credo che non possano di certo fargli troppo male e danno visibilità e la possibilità di spiegare perché è importante la ricerca, arrivando fino ai cittadini che pagano le imposte di cui una piccola parte va alla ricerca. In questo modo si occupa la comunicazione su un soggetto che altrimenti è mediato da altri. Bisognerebbe chiedersi, infatti, se affidare ad altri l’affermazione di quali siano le esigenze della ricerca al posto di chi svolge quest’attività, sia la strategia giusta. Allo stesso modo trovare reti di relazioni per promuovere la propria ricerca che vadano oltre i limiti del proprio luogo di residenza e delle tristi ristrettezze locali, mi sembra una prospettiva da non abbandonare. Il resto, forse, lo fa un po’ di coraggio e i casi della vita, che pare passino anche sotto il nome di fortuna.