Mettersi in gioco: il desiderio della competizione

In un libro del 1998, Pier Aldo Rovatti dedica al motivo della competizione alcune pagine molto interessanti. Lo fa proprio a partire dal tema del gioco, che rappresenta la prima chiave di lettura della nostra “condizione paradossale”. Attraverso un serrato confronto con le classiche interpretazioni di Johan Huizinga e Roger Caillois, vengono messi a fuoco alcuni aspetti problematici del gioco, in una progressione che ha l’effetto di portarne alla luce i lati meno rassicuranti e al tempo stesso più filosoficamente promettenti: l’incertezza e il rischio.

Pubblichiamo un estratto da Sospendere la competizione (Mimesis Edizioni)

Il punto di partenza è dato dalla constatazione di un cambiamento nel linguaggio. Non si tratta di una svolta radicale, ma di una variazione. Tanto il lessico del gioco quanto quello della guerra fanno ricorso a «operatori metaforici come “competizione”, “strategia”, o “rischio”», eppure ci sarebbe un significativo spostamento di significato nel passaggio da un registro all’altro: mentre nella semantica della guerra il rischio indica pericolo, in quella del gioco prende il senso di chance, di opportunità individuale. Rovatti sottolinea la combinazione specifica di tratti del gioco che si sta affermando, e la identifica in una semplificazione rispetto allo schema quadripartito proposto da Caillois.

Delle quattro tipologie a cui l’antropologo francese riconduceva tutti i giochi – Agon, Alea, Mimicry, Ilinx – prevale la coppia agon-alea, competizione e fortuna, mentre vengono messi in ombra l’imitazione e la vertigine:

Il gioco che entra nelle attuali descrizioni socio-politiche è di altra natura. Si tratta, soprattutto, di una combinazione tra alea e agon, e il suo modello di riferimento è la competizione regolata. […] Se diciamo […] “le regole del gioco”, ciascuno è in grado di capire che occorre ingaggiarsi in una competizione che, come tale, cioè come gioco, non potrà che essere libera e dove ci sarà da affrontare un rischio perché nessuna partita è già stata giocata prima.

La cornice evocata con il richiamo alle “regole del gioco” è in sostanza la cornice della democrazia, alla quale si attribuisce qui, pur senza alcuna enfasi, una funzione di bilanciamento tra equità e giustizia, e alla quale si riconosce la capacità di conferire all’esperienza della sfida e del rischio un connotato positivo, spostando in secondo piano le implicazioni aggressive e distruttive tipiche del lessico guerresco. Il senso del rischio non rimanda tanto a questioni di vita e di morte, di deboli e forti, ancora in campo nella filosofia di Nietzsche, quanto piuttosto a una salutare esposizione allo spaesamento o a un’oscillazione sul limite.

Le regole del gioco, d’altra parte, non rappresentano una frontiera invalicabile

Conviene ripartire da qui, anche per comprendere quanto lo scenario, in una quindicina d’anni, sia cambiato. Il gioco continua, beninteso, a essere un concetto attraente e a esercitare una notevole seduzione come filo narrativo per tenere insieme gli episodi più o meno felici dell’esperienza individuale e collettiva, e per conferire senso ai cambiamenti generali. Nel gioco troveremo sempre l’armonia dinamica tra libertà e vincolo, tensione e distensione, piacere e sforzo, che ne fanno una tra le categorie più adatte a plasmare immagini soddisfacenti della vita. La sua gratuità, universalmente riconosciuta, si presta bene, una volta trasferita al funzionamento dell’economia, a mettere fuori gioco, è il caso di dirlo, qualsiasi richiesta di giustificazione morale.

Le regole del gioco, d’altra parte, non rappresentano una frontiera invalicabile. Ridefinirle fa parte della natura stessa del gioco, che non è soltanto game ma anche play, non solo singolo gioco, partita, ma anche il giocare in generale. Le regole, lo vediamo bene nella politica odierna, si devono a un certo punto cambiare, non possono restare sempre le stesse dopo trenta, quaranta, cinquant’anni. Detto per inciso, è stupefacente la frequenza con cui questo presunto argomento viene avanzato: una riforma sanitaria deve essere approvata perché “non se ne facevano più da trent’anni”, la costituzione deve essere modificata perché “ha quasi settant’anni” ecc. Ci sono, è il caso di dirlo, altri giochi in ballo.

Qual è allora la declinazione oggi prevalente della metafora del gioco? Colpisce l’unificazione dei giochi intorno all’elemento comune della competizione, che fa pensare alla tesi sostenuta da Huizinga in Homo ludens. Più precisamente, si stabilisce una circolarità gioco-competizione, in parte già emersa nell’analisi del legame tra lo sport e il management. I giochi, almeno quelli collettivi o svolti al cospetto di altri, secondo Huizinga sono accomunati dal desiderio di vincere:

Strettamente intrinseco al gioco è il concetto del vincere. Nel gioco solitario non si parla ancora di «vincere». Il concetto di vincere si presenta solo quando si gioca contro altri. Che cos’è «vincere»? che cos’è «vinto»? – Vincere è «ri- sultare superiore» nell’esito di un gioco.

La chiusa del passaggio va riletta con attenzione. Huizinga scrive «nell’esito di un gioco»; dunque, si direbbe, non “fuori” dai confini di quel gioco limitato da regole precise e restrittive. Tuttavia, le cose non sono così semplici. Tutte le attività più elevate dell’umanità, sostiene l’autore, si possono comprendere sul modello del gioco; tutte quindi devono avere un carattere competitivo. La bellezza della civiltà, dell’arte, del pensiero greco non sono separabili da un essenziale orientamento agonistico.

Scommettere significa cercare di provocare la vita affinché riveli una «sopra-vita»

Feste e cerimonie religiose non si possono neanche concepire se non accompagnate da gare in cui gli atleti lottano per eccellere. Nell’epoca contemporanea la centralità dell’esperienza ludica permane, sebbene si riducano gli spazi di libertà che la caratterizzavano anticamente, quando era completamente estranea alla sfera seria dell’utile. […] Qual è il significato dell’azzardo nella società contemporanea? Che cosa tiene legato il giocatore al tavolo da gioco, non quando perde, ma quando gli capita di vincere? Non certo la brama di altro denaro; piuttosto la piccola, ma straordinaria esperienza dell’incontro con la contingenza, risponde Dal Lago.

Scommettere significa cercare di provocare la vita affinché riveli una «sopra-vita», abitualmente inaccessibile. Farsi catturare dal demone del gioco vuol dire entrare dalla porta socchiusa per un attimo nel muro dell’organizzazione sicura e prevedibile da cui siamo insieme protetti e incatenati. Allora il gioco fa balenare una verità sulla vita di solito rimossa, cioè che «in ogni momento siamo chiamati a spendere le nostre chance, a giocarle o a buttarle via». […]

La diffusione del gioco d’azzardo negli Stati Uniti, con i suoi gioiosi rituali di massa socialmente legittimati, non andrebbe concepita come un modello del gioco economico, cedendo alla suggestione dell’analogia tra le condotte degli speculatori e quelle dei giocatori, ma come una «forma di dépense arcaica che la cultura moderna capitalistica tollera e talvolta assorbe facendone una pratica legittima». Per riassumere in modo un po’ schematico, la competizione che appartiene all’agon sta dalla parte della razionalità capitalistica e della burocrazia, mentre il rischio dei giochi d’azzardo vi si contrappone, compensando il sacrificio di una pulsione fondamentale attraverso pratiche esterne al sistema, per quanto non marginali, visti i giri d’affari che mettono in moto.

Ma qualcosa non torna. Intanto è evidente che esiste competizione anche nel gioco d’azzardo, che somiglia alle sfide a chi dona e distrugge di più, come nei rituali indiani di potlach: dove quel che si mette in gioco, secondo un’indicazione di Erving Goffman, è il carattere, la propria “maschera sociale”. Si conferma così l’atteggiamento ambivalente della nostra cultura verso questi comportamenti pericolosi ma originati da una spinta insopprimibile a rischiare tutto.

Ci sarebbero dunque una competizione corretta e razionale, rivolta a obiettivi socialmente accettabili, misurata nelle sue manifestazioni, e una competizione eccessiva, sconfinante nel brivido, quindi forse vicina a quel gioco di vertigine rimasto ai margini della modernità?

Se si guarda alla condizione presente c’è da dubitarne. Quando si professa la fede nella competizione, quando si incitano gli individui a diventare sempre più competitivi, è alla sur-competizione che si guarda, un nuovo concetto che ricorda da vicino la dépense di Bataille. La richiesta pressante che ci viene rivolta è a mettere in gioco tutto, non solo i nostri averi, ma la nostra persona, i nostri legami affettivi, il nostro tempo, insomma la vita intera. Quante volte abbiamo sentito la frase “Devi giocartela!” per spronarci a “prendere” dei rischi, come ormai si usa dire.

Il transfert simbolico tra gioco-mercato-vita si lascia interpretare anche attraverso la polarità vincere/perdere

La vicenda dei mutui subprime, in modo non tanto diverso da quanto era accaduto ai tempi del Grande crollo del 1929, ha con tutta evidenza alla base anche l’incoraggiamento a un rischio sproporzionato a cui sono state spinte fasce sociali economicamente fragili da una finanza senza scrupoli. Salvo poi, una volta scoppiata la crisi, accusare quei cittadini di essersi incautamente indebitati, quindi poi meritatamente puniti con la miseria. Parlare di ambivalenza può suonare troppo indulgente. Nel linguaggio e nella realtà del capitalismo neoliberale, la molteplicità dei giochi sembra implodere, mentre sfumano le differenze tra gioco e realtà che garantivano al gioco la sua libertà e la sua “protezione” essenziali. Un unico grande gioco, per alcuni inebriante per altri feroce, ci gioca e ci obbliga a metterci ogni volta di nuovo in gioco.

Il transfert simbolico tra gioco-mercato-vita si lascia interpretare anche attraverso la polarità vincere/perdere. Mentre lo schema quadripartito di Caillois sembra fatto per il singolo giocatore, questo nuovo asse porta in primo piano la modulazione dell’intersoggettività nel gioco. Lo scambio umano, ci ricorda Richard Sennett, ha sempre conosciuto un impasto in cui i vari tipi di giochi, o di scambi, si disponevano, mescolati in dosi diverse, in un ampio spazio tra due poli opposti: quello dell’altruismo e del dono, in cui si lascia vincere l’altro, e quello dell’egoismo puro, in cui l’altro compare solo come un rivale da distruggere.

Sennett non demonizza la competizione; cerca piuttosto di bilanciarne il peso eccessivo con un’attenzione minuziosa alle forme della collaborazione

Una gamma di mescolanze tra collaborazione e competizione, entrambe impulsi “naturali”, come dice l’autore in omaggio all’etologia, senza per questo trascurare il peso della rielaborazione simbolica. A mediarne la tensione contribuiscono in modo decisivo i rituali che ogni società deve allestire, affinché i legami sui quali si regge non si dissolvano. Persino nei giochi “a somma zero” dove la vittoria di uno o di alcuni implica la sconfitta di altri – e tutte le gare sportive sono giochi di questo tipo – conviene lasciare allo sconfitto una possibilità, relativizzando per esempio l’affermazione del vincitore o spronando il per- dente a riprovarci, in modo da attenuare l’umiliazione dell’uno e l’orgoglio dell’altro.

Sennett non demonizza la competizione; cerca piuttosto di bilanciarne il peso eccessivo con un’attenzione minuziosa alle forme della collaborazione, ma soprattutto si sforza di inquadrarla in un contesto collaborativo. È un’impostazione che rovescia la tendenza prevalente a inquadrare le pratiche collaborative su uno sfondo di competizione, fondata sul presupposto implicito che la verità ultima della biologia sia la competizione universale. La sua analisi è orientata invece a una visione etica, dalla quale la diagnosi sulla condizione presente non può prescindere. Proprio per questo alcuni la giudicano unilaterale: Ehrenberg, per esempio, ha catalogato la sua sociologia nel genere della “geremiade” americana.

L’approccio di Sennett è illuminante. Nel saggio sul rispetto l’autore ricorda un episodio accadutogli durante la festa seguita a una competizione musicale. Un’anziana pianista membro della giuria gli aveva confidato il proprio disagio nel dover premiare un giovane scartandone altri, pur ammettendo che questo era l’unico modo per riconoscere i migliori. Non poteva ignorare l’aggressività di certi concorrenti, né l’effetto di blocco che la prova aveva su altri, forse altrettanto meritevoli, né l’ambiguità di certi aspetti della selezione, fondata sulla valutazione del “potenziale”. Il suo disagio, commenta Sennett, esprimeva il dilemma in cui veniamo a trovarci di fronte alla diseguaglianza del talento, in fondo un’ingiustizia, non così facile da digerire per chi ne viene escluso:

Le ambiguità del potenziale in una società competitiva tormentavano la coscienza dell’anziana donna giudice nella competizione del concorso per pianoforte. Ella reputava devastanti le implicazioni del giudizio espresso sul futuro di qualcuno, sulle capacità potenziali di sviluppo di un essere umano. […] Il problema sta nel concetto di potenziale in sé: nell’attitudine c’è una promessa, se solo l’individuo ha la volontà. Ma nessuno specifica in cosa consista questa promessa. […].

Se tuttavia la selezione del talento in un campo così specialistico come l’esecuzione musicale ha un senso accettabile, essa diventa molto più preoccupante quando, come accade ormai regolarmente, si estende alle qualità complessive dell’individuo:

Le organizzazioni moderne valutano l’«uomo intero» e specialmente quello che potrebbe diventare. Nel lavoro come nell’istruzione, il giudizio «tu non hai potenzialità» è devastante come mai potrebbe esserlo un’osservazione del tipo
«hai fatto un errore».

Sennett coglie inoltre lucidamente le implicazioni discriminatorie derivanti da valutazioni del “potenziale” anticipate a età sempre più precoci:

Nicholas Lemann, analista di test attitudinali, non dubita affatto che questi misurino qualcosa di reale. Ciò che lo preoccupa è l’uso che viene fatto di questi test: essi infatti minimizzano i successi locali e individuali, magari ottenuti con sforzi assidui, per esaltare invece qualcosa ancora da venire. Peggio ancora, la valutazione delle possibilità che sarebbero poi attuate da adulti viene calcolata in età sempre più premature. La valutazione dell’attitudine fa sempre più dell’infanzia lo scenario privilegiato delle diseguaglianze sociali […].

Si tratta di una tendenza indubbiamente accentuatasi negli ultimi anni, parallelamente all’estendersi della finanziarizzazione dell’economia. Entrambi i fenomeni hanno l’effetto di polverizzare il tempo, in una rincorsa ossessiva alla previsione del futuro, in vista di vantaggi competitivi, che genera una serie di effetti paradossali. Come nel caso dell’analista finanziario di Wall Street che avrebbe “gonfiato” una valutazione di rating a vantaggio di un potente manager, sperando di ottenere, grazie all’intervento di quest’ultimo, un posto per le figlie in un prestigioso asilo infantile. Una vicenda dove l’aspetto più inverosimile non è tanto la disinvoltura nel truccare le carte, quanto la posta stessa del gioco – un posto in un asilo – e che illustra, in chiave surreale, la complicità perversa tra un’economia dominata dall’efficientismo di facciata e la spinta parossistica alla competizione per l’istruzione migliore.

Come si può pensare di mettere tra parentesi il peso dei mezzi economici e culturali familiari?

Ci sono molte buone ragioni, d’altra parte, per prendere una certa distanza critica dal concetto di “uguaglianza di opportunità”. Il mito delle uguali opportunità è ben poco egualitario: serve a giustificare l’emergenza di nuove disuguaglianze, che ci si prefigge di valutare e misurare con precisione matematica in vista di successive selezioni e scremature dei concorrenti. Un mito attraente, perché promette di sostituire le diseguaglianze ingiuste dovute al patrimonio ereditato, con altre che saranno unicamente l’esito dei meriti e dei demeriti di ciascuno. Perciò le sinistre europee lo hanno abbracciato con entusiasmo, senza riuscire, o senza volerne vedere i risvolti antidemocratici. Hanno smesso così di combattere per la riduzione delle diseguaglianze reali in nome dei diritti sociali di tutti i lavoratori, in cambio della promessa di miglioramenti sostanziosi per alcuni.

È quantomeno ingenuo pretendere di realizzare condizioni di uguali opportunità nell’educazione senza incidere su altri fattori. Come si può pensare di mettere tra parentesi il peso dei mezzi economici e culturali familiari, cioè il contesto in cui avviene la prima formazione? A meno che non si pensi di sottrarre i bambini alle famiglie d’origine per educarli in comune, secondo una fantasia tipica delle narrazioni utopiche e distopiche di tutti i tempi. Un esito che le famiglie più ricche e potenti potrebbero a loro volta cercare di contrastare ricorrendo all’ingegneria genetica, per dotare la loro prole di un potenziale superiore che si svilupperebbe in ogni circostanza.

Infine, anche ammesso di credere alla correttezza formale del gioco, restano forti dubbi sul suo prezzo in termini di felicità, di giustizia, di rispetto della dignità umana. Prezzo forse non compensato neppure da un miglioramento nella qualità delle prestazioni professionali e quindi del sistema socio-economico nel suo complesso. Un lavoro “ben fatto” richiede infatti un lungo apprendimento, un certo tempo e un attaccamento alla propria professione che mal si conciliano con gli imperativi della flessibilità tipici del mercato attuale. Per ridare valore e prestigio a tutta una serie di attività manuali e intellettuali, ma in fondo anche per rilanciare la produzione, dovremmo, seguendo Sennett, riscoprire il senso dei saperi “artigianali”. In caso contrario qualsiasi competizione sarà al ribasso.

Basterebbe pensare a quanto è avvenuto in Italia nell’ambito dei programmi televisivi di informazione e di intrattenimento, dove la competizione tra reti pubbliche e private non ha affatto generato un miglioramento qualitativo, ma solo un incremento dell’offerta di prodotti sempre più omologati su livelli mediocri, ritenuti a torto o ragione corrispondenti ai gusti del pubblico più vasto. Il prezzo più alto, da un punto di vista sociale, è però l’eclissarsi del- la collaborazione, o peggio il suo sfigurarsi in una finzione che copre a malapena l’aggressività dei singoli, o in una messinscena orchestrata per rinsaldare l’“appartenenza”, secondo il linguaggio misticheggiante tipico di un management popolare.

Scrostata la vernice retorica, la dura sostanza del messaggio è che tutti devono giocare, e che si gioca per vincere, sapendo che se qualcuno vince qualcun altro dovrà perdere. La logica prevalente è dunque quella del gioco a somma zero, o della versione estrema dell’“asso pigliatutto”, dove chi vince prende tutto mentre l’altro è rovinato.

La diseguaglianza economica rappresenta in concreto il punto d’arrivo delle contese contemporanee

È facile capire come la risposta da parte dei singoli possa essere il ritiro in se stessi, la rinuncia alla collaborazione e la formazione di un “sé non collaborativo”, nozione della psicologia sociale di cui Sennett si serve per completare il quadro sulla crisi della collaborazione, già ben delineato at- traverso l’analisi della disuguaglianza dei talenti e delle trasformazioni del lavoro. Di fronte alla contraddizione tra eguaglianza teorica e diseguaglianza effettiva, scatterebbe una reazione individualistica già nota a Tocqueville. L’autore de La democrazia in America aveva colto con chiarezza il nodo forse irrisolvibile della società moderna, che maschera nell’esaltazione dell’eguaglianza il suo disagio verso l’ineguaglianza. Il problema è che, contrariamente alle previsioni di Tocqueville, il mondo non si è evoluto in direzione di una crescente eguaglianza.

La diseguaglianza economica rappresenta in concreto il punto d’arrivo delle contese contemporanee. È altrettanto probabile che essa continui a operare indisturbata dietro la presunta “uguaglianza di opportunità”. Non per questo ci fornisce tutte le risposte a proposito delle attrattive ambigue della competizione. Caillois giungeva ad asserire che la massima realizzazione dello spirito agonistico fosse rappresentata dal comunismo sovietico: avendo cercato di espellere dalla società il ruolo dell’alea per valorizzare esclusivamente lo sforzo nel lavoro, lo stato sovietico avrebbe poi dovuto inventare strani sorteggi a premi, controllati dallo stato e pudicamente distinti dalle lotterie borghesi, per reinserire un po’ di linfa vitale nella pianta inaridita del sistema. […]

Domina il gioco chi comanda le forme e i tempi del godimento degli altri, chi mostra come e quando si deve godere, chi decide le regole. Si può aggiungere che la posizione del dominio consente soprattutto di modificare le regole senza concordarle con i complici: così chi domina può sempre sorprenderli e respingere i loro maldestri tentativi di imitarlo.

Consideriamo ora per un momento la situazione della vittima. Essere giocati, essere presi in giro potrebbe anche essere un’esperienza liberatoria, utile a farci uscire dalla preoccupazione di padroneggiare la realtà. Un’esperienza di inebriante caduta, simile a quella di chi cade durante un girotondo, scrive ancora Rovatti a proposito delle possibilità e dei sensi del gioco.

Possibilità ambivalenti, oscillanti tra la presa in giro di qualcun altro e l’essere noi stessi presi nel giro del gioco.
In realtà, insomma, godiamo molto di più se c’è una vittima, se il gioco ci conferma o ci rafforza in una posizione di dominio, magari attraverso la deviazione della passività; e soprattutto non ci divertiamo affatto se le vittime siamo noi.

Il “mettersi in gioco” si avvicinerebbe allora al desiderio di infliggersi una certa sofferenza controllata

Non è solo questione di battute di spirito, magari sgradevoli o umilianti. Come non cogliere un certo gusto, un godimento maligno delle sfortune altrui, nel favore con cui si salutano le sconfitte degli altri? Quasi che l’affermazione di sé avesse meno sapore senza il corrispettivo arretramento di qualcun altro. Per quanto possa essere spiacevole ammetterlo, anche questa passione dà il suo contributo silenzioso alla mitologia della società competitiva.

E se la vittima fossimo noi stessi? Se l’idea del mettersi in gioco – non diversamente da quella del mettersi al lavoro – fosse nutrita dal desiderio di rendersi passivi, congiunto in modo enigmatico con la volontà di agire, di esprimere e dar prova di autonomia e dinamismo? Il “mettersi in gioco” si avvicinerebbe allora al desiderio di infliggersi una certa sofferenza controllata; si collocherebbe dalla parte del masochismo, così come il giocare con gli altri, nel senso di prendersi gioco degli altri, di giocare gli altri come fossero pedine del nostro gioco, esibisce un certo legame con il sadismo.

Più precisamente, il mettersi in gioco rivelerebbe quella strana struttura inconscia, fantasmatica, che Slavoj Žižek chiama “interpassività”: un compromesso tra il desiderio di dominare e quello di abbandonarsi al godimento di essere dominati, che si può riconoscere in varie forme e a vari livelli in tante piccole e grandi perversioni contemporanee. Far soffrire e farsi soffrire, scrive anche Derrida, sono manifestazioni della crudeltà, se intendiamo per crudeltà non solo e non tanto lo spargimento di sangue, quanto soprattutto il piacere gratuito di arrecare sofferenza, a sua volta in stretto rapporto con l’esercizio della sovranità.

Quando il gioco non è girotondo, ma sfida a superare e a superarsi, dove sta il godimento del metter- si in gioco, del mettere se stessi in gioco, del farsi giocare dal gioco? Tutto fa pensare che si tratti di un gioco con la morte, di qualcosa che, direbbe Freud, è in relazione con le pulsioni di morte. Ma non è solo nella scossa eccitante dell’azzardo, così prossimo al rischio mortale, che ne avvertiamo la presenza.

La morte è corteggiata anche in un modo meno appariscente e meno trasgressivo: nell’assoggettarci di buon grado alla macchina produttiva e amministrativa, nel sottoporci alla coazione a ripetere all’infinito il gesto della sfida, respiriamo quasi l’atmosfera di una pulsione di dominio e di appropriazione forse ancora più originaria di ogni altra. Freud l’aveva chiamata “Bemächtigungstrieb”, parola in cui è ben visibile quell’intreccio tra il desiderio e il dominio che costituisce il motore della competizione in tutte le sue manifestazioni.

Forse non è possibile eluderla. Persino nella ripetizione di quei gesti dalla quale discende l’abilità artigianale, il lavoro “fatto bene” che Sennett rivaluta in alternativa all’attività frenetica, ultraperformativa a cui oggi siamo abituati, persino in quella specie di soddisfazione-abnegazione a volte sperimentata nel lavoro, c’è forse una traccia della pulsione di potere, un segreto desiderio di dominare, con un ritmo regolare e operoso, il procedere irreversibile dell’esistenza verso il caos. Ma non è un buon motivo per smettere di sottolineare le differenze, o per non cercare di abitare più umanamente il paradosso.


Estratto dal capitolo Mettersi in gioco contenuto in Sospendere la competizione di Beatrice Bonato, prefazione di Aldo Rovatti (Mimesis Edizioni, Milano 2015)