Innovazione sociale tra Frozen e Berlinguer

Attorno alla metà degli Anni Settanta un nutrito numero di storici dell’arte progressisti progettano un’opera che, nelle intenzioni dei promotori, deve cambiare il modo in cui guardiamo all’arte, alla storia e all’editoria di cultura. Sto parlando della Storia dell’arte italiana pubblicata da Einaudi, o almeno delle sue parti più sperimentali e innovative. Suppongo che la conosciamo tutti, e che qualcuno di noi l’abbia pure usata in più di una circostanza. Ampi volumi arancioni telati protetti da un cofanetto pure arancione.

A coordinare il progetto sono, quantomeno in un primo momento, Giovanni Previtali per la parte scientifica e Paolo Fossati per il coordinamento redazionale (in seguito la responsabilità editoriale passa da Previtali a Federico Zeri). Il primo è uno storico dell’arte antica e moderna, autore di studi di formidabile importanza sulla pittura del Trecento, allievo di Roberto Longhi. Il secondo è filologo, critico d’arte e curatore. Perché ne parlo adesso? Perché la Storia dell’arte italiana doveva essere, nelle intenzioni di Previtali e Fossati, lo strumento editoriale in grado di intrecciare intimamente cultura storica e progetto etico-politico, memoria e trasformazione sociale.

Concepito per portare a maturazione una diversa consapevolezza nelle classi dirigenti, avvicinare i modi altrimenti non comunicanti della divulgazione e della ricerca, infine orientare in modo più efficace l’arte contemporanea, la Storia dell’arte italiana doveva inoltre costituire la prova di maturità di una critica (e di una storiografia) autonoma dal mercato, posta al servizio della conoscenza effettiva e dell’interesse pubblico di un’intera nazione.

Cosa resta oggi di questo illustre cantiere di una storia dell’arte che doveva diventare “azione civile”, concepita a ridosso del PCI di Enrico Berlinguer? A mio parere sono valide le istanze generali, che invitano a considerare l’arte in connessione ad altri ambiti di attività umana. Meno fecondo invece l’eccesso di politicismo. Davvero la “cultura” è qualcosa che si può organizzare, un “oggetto” suscettibile di dimostrazione e ragionamento? C’è il rischio che tutto ciò si trasformi in una cattiva imitazione della politica.

Nessuna battaglia artistica (o culturale), se sincera, può prescindere da un elemento di rischio individuale, di nudità e testimonianza (lo riconosce al tempo l’eletta voce fuori dal coro di una longhiana eterodossa come Carla Lonzi, che proprio sul punto polemizza con Argan).