Camp: un simposio per l’innovazione

Il camp di cheFare si tiene presso l’Ex-Ansaldo, ora Base, a Milano. Il colpo d’occhio sullo spazio suggerisce la barratura di camp e una promozione lessicale: il simposio di cheFare. Cinque tavoli sistemati al secondo piano del nuovo spazio culturale milanese, un’enorme distesa vuota di calcestruzzo. A mezzogiorno i partecipanti sono tutti seduti. Una trentina di persone. Da Lecce, da Bologna, dalla provincia piemontese. Ci sono i progetti selezionati dal bando IC – Innovazione Culturale – promosso da Fondazione Cariplo; ci sono soggetti che a diverso titolo lavorano all’interno di strutture bibliotecarie e istituti museali e che hanno partecipato ad altri percorsi, sempre attivati da Fondazione Cariplo; e poi ci sono le dieci realtà finaliste del bando 2015 di cheFare.

Lo scopo è conoscersi. Che significa entrare in contatto, avere nozione del percorso umano e professionale dell’altro, scambiarsi informazioni. La composizione dei tavoli funziona come una sessione di chatroulette. Ci si siede al tavolo – un vecchio tavolo grigio ovale – di fronte a persone mai incontrate, per ascoltare i progetti di ciascuno, fino a quando non verrà il momento di raccontare la propria idea. Tuttavia, a differenza di Chatroulette, l’assortimento non è random, ma è curato da cheFare, in base a criteri di affinità tematiche.

I nomi con cui le associazioni finaliste si sono battezzate, non sono nomi qualunque. Ciascuno testimonia un’ambizione narrativa. Nomi poetici (Assessorato alle piccole cose); anglofili (My home gallery); esotici (Xanadou); programmatici (Italia che cambia); giochi di parole (Baumhaus). I progetti sono esposti ai link pubblicati qui. Leggendo incontriamo una ricorrenza di sostantivi, verbi, formule, espressioni tipiche nell’ambito dell’innovazione culturale.

Sostenibilità
                                                       Incrociare l’offerta           Realtà virtuose
              Soggetto proponente              Follow-up
Radicamento territoriale                                               Multiculturalità
Lab Autoproduzione              Piattaforma
Makers                                                                                   Condivisione Dal basso
Modalità di accesso             Empowerment
Centro culturale diffuso    Partecipazione              Esperienza
Bottom up          Coinvolgimento Intende individuare
Collaborazione                                                                Intende diffondere

L’obbietivo è Territorio Con lo scopo di Fruizione
                                                                           Scouting
Prevede laboratori                        Osmosi              Crowdfunding
Mettere in relazione
Didattica                      Mentoring                  Macroazioni
Rete

Ma, come vedremo più avanti, i progetti, le idee, appaiono molto più ricche, vive, flagranti, nel momento in cui vengono esposte a voce, libere da un linguaggio tecnico-concorsuale divenuto suo malgrado un idioletto e un manierismo.

cheFare ha messo a disposizione di tutti i partecipanti una quantità di fogli di giornale e ha chiesto a ognuno di servirsene per costruire una piccola scultura di carta, un modellino, capace di raccontare il proprio progetto. Dopo mezz’ora i tavoli ricordano quei laboratori di cartapesta in cui si trasformavano le vecchie aule di scuola elementare dove siamo cresciuti e abbiamo imparato a esprimerci. Ho fatto un giro tra i tavoli, in questa atmosfera operosa, impollinante e di colpo steineriana, e ho chiesto a un po’ di persone di raccontarmi la loro piccola scultura di carta.

La barchetta

Paola, del settore cultura del Consorzio Oltrepò Mantovano, ha costruito una barchetta di carta. “La nostra identità”, mi spiega, “si radica in una zona profondamente rurale, che è caratterizzata dalla presenza del fiume Po. È qui che lavoriamo, coordinando il lavoro di diverse associazioni culturali che operano nella zona”. Le chiedo di dirmi di un loro progetto e allora Paola mi parla di un intervento di arte pubblica nei pressi di Sermide, lungo una pista ciclabile che costeggia il Po. “Stefania Galegati Shines, artista, ha scritto con una vernice bianca, lungo tutta la ciclabile, le parole di un lunghissimo racconto di Paolo Roversi, che è uno scrittore originario della zona. Questo è stato un nostro recente progetto. Un altro dei nostri progetti”, aggiunge, “lo abbiamo chiamato Fitzcarraldo. Abbiamo portato per tre giorni una quarantina di ragazzi sopra una barca e li abbiamo guidati lungo un percorso sul Po, dove abbiamo incontrato poeti, illustratori e artisti.

La notte abbiamo dormito nei pioppeti e abbiamo fatto colazione all’alba, sul fiume. È una forma di turismo religioso-pagano, se vuoi. I ragazzi hanno conosciuto il fiume, in un modo radicalmente nuovo. Ecco perchè oggi ho fatto questa barchetta di carta”. E in effetti, che dev’essersi trattato di una nuova esperienza del fiume Po, lo capisco dal fatto che Paola, a un certo punto, ha usato questa espressione: “Sembrava di stare sul Mekong, non sul Po”.

L’ordito

Alessandra è la coordinatrice del sistema bibliotecario della Val Seriana, zona nord orientale della provincia di Bergamo. È l’autrice di un ordito di striscioline di carta, perfettamente geometrico. In biblioteca lavora ormai da venticinque anni. Mi dice di essersi laureata in Lingue e letterature comparate e che il suo obbiettivo è sempre stato quello di lavorare in una biblioteca.

“Le biblioteche un tempo erano un luogo molto diverso da oggi. Erano sostanzialmente dei magazzini di libri. Oggi, invece, spesso sono degli spazi di transito e dei magazzini di storie. È proprio così, non sto cercando di fare poesia”. E in effetti Alessandra mi sembra una donna serenamente priva di ego, molto tranquilla e concreta. Non vuole incantarmi, perciò l’ascolto volentieri. Sento di poter credere nel suo racconto. “Un tempo le biblioteche erano concentrate sulla conservazione del libro, un oggetto investito di un’autorità sacrale. Ora il libro, invece, è più un mezzo per costruire relazioni tra persone”.

Le chiedo di spiegarmi meglio. “La biblioteca diventa uno spazio duttile, accogliente, senza per questo soffire il tag un po’ sfigato da ‘servizi sociali’. Nelle quarantuno biblioteche che coordino ci sono diversi modi di fare servizio bibliotecario. C’è ancora quel modo un po’ all’antica e ci sono le biblioteche dove i bambini di origine araba vengono a imparare la lingua dei loro nonni – l’arabo, appunto – che in casa non parla più nessuno. In biblioteca vengono le nonne per insegnare cucito alle ragazze. Ci sono persone che in venti anni non hanno mai preso un libro in prestito. Vengono per leggere il giornale, per usare il bagno, per stampare un biglietto aereo, per chiedere come si scrive un curriculum o per frequentare un corso di giardinaggio. Una biblioteca è anche questo. Poi c’è chi prende in prestito un libro di cucina, un libro di gomma, un libro giocattolo. Libri che comunque costruiscono una relazione col mondo e con gli altri e che perciò, dal punto di vista di una biblioteca, valgono quanto il prestito di un Paradiso di Dante. Il bibliotecario non è più un sapiente, ma un facilitatore”.

Le chiedo di nuovo il perché di quel manufatto di carta e Alessandra mi dice che, intanto, le piaceva proprio il fatto che fosse carta di giornale, quindi con dei pensieri, delle parole stampate sopra. “Il mio progetto si chiama Tira fuori la lingua e ha proprio l’obbiettivo di mettere in relazione persone con competenze linguistiche e culturali diverse. Se tu rimani una striscetta di giornale e non t’intrecci ad altre striscette di giornale, non puoi creare la trama, l’ordito, la conoscenza”.

Bar+Teatro

Davide è uno dei finalisti ed è molto felice e stupito di essere arrivato fino a questo punto. Il suo progetto si chiama Tournée da bar, “che è anche il nome della nostra compagnia teatrale”, mi spiega, ma poi si corregge e dice “gruppo, non compagnia. Gruppo è più corretto”. Questa mattina ha preso un foglio di giornale, lo ha piegato e ha scritto teatro su una metà e bar sull’altra. Poi lo ha girato sull’altro lato e ha scritto Tournée da bar, “che è il titolo del progetto, come ti dicevo, che appunto intende rilanciare una cultura teatrale in luoghi non convenzionali, per esempio e soprattutto il bar”.

Davide fa spettacoli nei bar già da quattro anni. “I primi due giravamo con una drammaturgia originale, poi abbiamo iniziato a portare in giro i classici: Otello e Romeo e Giulietta. Adesso vorremmo fare Amleto. Shakespeare si sposa benissimo con lo spazio umano del bar. Questa è una scoperta che ho fatto poco a poco. Shakespeare scriveva i suoi drammi per poi rappresentarli nel Globe Theatre. La caratteristica del Globe Theatre era di essere un luogo molto caotico, frequentato dal popolo, dove si mangiava, si beveva, insomma dove si produceva anche molto rumore. E’ solo in seguito che il teatro è diventato un luogo silenzioso, diviso tra palco e platea. Perciò riteniamo di fare un’operazione filologicamente corretta riportando il teatro nei bar.

La storia è dalla nostra parte”, dice con autoironia, ma pure con una certa convinzione nelle parole. “Nei bar portiamo un impianto scenico essenziale, che non modifica l’ambiente”. Gli chiedo che cosa se ne faranno dei cinquantamila euro di cheFare, nel caso dovessero vincere. Allora Davide mi spiega che con quei soldi potrebbero pagare i fundraiser, la comunicazione, il marketing e la persona che se ne va in giro per l’Italia a cercare i bar disposti ad ospitarli. “Al momento Tournée da bar siamo solo noi, ma ci piacerebbe creare una rete, nel futuro e al di là di questo progetto presente, coinvolgendo altre realtà teatrali. Le giovani compagnie hanno un problema di distribuzione, mentre questo tipo di scena, il bar, può offrire un’alternativa”.

Il ponte

Il lavoro di Giovanni è quello che a una prima occhiata mi sembra più indecifrabile. Un foglio di giornale su cui sono appoggiate due forme: una specie di banana di carta e una struttura più regolare. Che cosa significano?

Giovanni apre il computer e lancia sul desktop la foto di un grande murales, dal titolo Black machine. Si tratta di un gigantesco orso polare dipinto sulla facciata posteriore del Teatro Colosseo di Torino. Non capisco la relazione con il foglio e le due forme di carta. Allora Giovanni prende il telefonino e lo passa di fronte alla foto del murales aperta sul Pc. L’orso compare sul display del telefonino in rilievo: una specie di 3D.

Insomma, Giovanni lavora con la realtà aumentata. In particolare ha curato il progetto di diversi murales, tra Milano e Torino, che possono essere esplorati con lo smartphone, scaricando un’applicazione. Per esempio, di fronte a un murales che si trova qui a Milano, in zona Ticinese, possiamo ascoltare la voce di Franco Loi recitare una delle sue poesie dialettali. “Tornando al foglio di carta”, mi spiega Giovanni, “immaginiamo di trovarci nel 2022. Sulla pagina troviamo stampata una foto satellitare della punta settentrionale della Sardegna e della punta meridionale della Corsica. Attraverso un device possiamo visualizzare i due progetti concorrenti: il ponte di Renzo Piano e il ponte di Zaha Hadid”.

Ovvero quelle due forme di carta che effettivamente appaiono in rilievo rispetto al foglio, aggiungendo una dimensione. “Sempre attraverso il device possiamo consultare una quantità d’informazioni sui due progetti e poi, come cittadini, esprimere la nostra preferenza per l’uno o per l’altro”.

È interessante, penso, più che interessante: è una mitopoiesi, anche se in questa nostra conversazione ho la sensazione che Giovanni, dopo avermi sentito ripetere un paio di volte “Cioè?”, “In che senso?”, abbia visto in me un esponente delle vecchie humanities, un gutenberghiano con la penna, e abbia voluto impartirmi una lezione ed esibire l’inesorabile superiorità del suo sapere tecnico, anche sul piano del problem solving di grandi questioni come le opere pubbliche. Penso allora quanto sia importante, anche sul piano dell’innovazione culturale, che una disciplina non si mostri troppo superiore a un’altra, guastando il simposio.

Un argano titanico, di cui ho visto la foto, forse pendeva dal soffitto di questa sala. All’Ansaldo, edificio di seimila metri quadri collocato tra via Bergognone, via Stendhal e via Tortona, un tempo si fabbricavano carrozze ferroviarie e locomotive.

Questo simbolismo scontato e troppo telefonato, questa prevedibile metafora della trasformazione della città, da luogo della produzione industriale a luogo iperdisegnato dell’immateriale, s’infila come un liquido insapore dentro la cannuccia della penna Bic, finendo tra le righe degli appunti. Le homepage dei siti aprono con il fotogramma di un aereo militare russo abbattuto dall’esercito turco. La notizia ha il sapore del casus belli.

Come se la stessi già leggendo su un libro di storia. È ora di un caffè. Si alzano tutti ma, come Socrate in Platone, lungo la breve strada per il bar nessuno smette mai di parlare, farsi domande e cercare risposte. Non c’è altra scelta.

Fotografie di Ivan Carozzi