Camp: costruire con le differenze

C’è un albero che a prima vista sembra un ulivo, un biliardino, dei palloncini di carta colorati che pendono dalle travi, un tavolo da ping pong, dei post-it alle pareti, dei finestroni quasi vittoriani e poi c’è la vista sulla città invernale.

C’è una polifonia di voci nell’aria, un brusio come un basso continuo, voci di umani che stantuffano aria nei polmoni per farsi capire. Gruppi di persone riuniti intorno a dei tavoli da ore, chissà cosa avranno da dirsi.

C’è Chiara che a 15 anni voleva fare la veterinaria e che oggi a 30 anni ha messo in piedi un progetto di mostre d’arte in spazi privati. Tra 10 anni le piacerebbe essersi trasferita in Toscana e avere una casa con l’orto.

C’è Anna che a 13 anni voleva fare la scrittrice e che ora a 30 è un’organizzatrice culturale. Sta leggendo Conversazione in Sicilia di Vittorini perché un giorno è entrata nella Libreria del Mondo Offeso di Milano e ha chiesto perché si chiamavano così e gli hanno risposto Ma come, non hai letto Vittorini?

C’è Simone, 37 anni, che è appena tornato a Milano dopo cinque anni di vita in Salento con la moglie e i bimbi piccoli. A 15 anni viveva in un paesino di cinquemila anime e non aveva voglia di studiare. Poi è venuto a Milano a studiare Urbanistica, scelta a caso tanto per avere un motivo concreto per uscire di casa e ora invece si occupa di progettazione partecipata e dice che l’università gli ha cambiato la vita.

Qualcuno gioca a ping pong, qualcuno si alza a prendere un caffè dal bar, il brusio di fondo continua, la maggior parte di loro è lì seduta che parla. Da ore.
Sono al secondo piano di uno spazio industriale che un tempo era dell’Ansaldo, a Milano e oggi invece si chiama BASE.

Ci sono trenta persone che parlano da ore dei loro progetti di impresa culturale, cercando di spiegare e di capire come ognuno di loro ha creato la sua rete di contatti e la sua comunità, come si sta radicando sul territorio, come sta comunicando la sua esistenza.

Scopro che quest’esperimento di psicologia sociale in realtà ha un nome, si chiama Camp, e riunisce tutti i progetti finalisti dei bandi di impresa culturale di cheFare, Fondazione Cariplo e IC Innovazione Culturale.
Mi sposto da un tavolo all’altro, per capire di cosa parlano. Provo a fare alcune domande, ma uno mi risponde che ha poco tempo e deve ancora parlare con molte persone. Fanno sul serio.

“abbiamo prima fatto una lista di reti a contattare…”…. “la campagna serve a farsi conoscere a prescindere dal risultato…”… “…noi abbiamo distribuito cartoline per farci votare..”… “noi vogliamo riavvicinare le persone al teatro….”….“noi vogliamo portare l’arte fuori dai musei….”….“noi ti portiamo a casa il libro che vuoi, ma solo libri di librerie indipendenti e i pony express arrivano in biciletta….”

Tutti vogliono ridare vita a qualcosa, a un pezzo di novecento ammaccato e in declino, convinti di poterlo rispolverare attraverso un modo nuovo di produrre cultura.

Qualche dio oscuro e beffardo, gli organizzatori del Camp immagino, ha deciso di prenderli e rimescolarli in tavoli diversi, come fossero un mazzo di carte da smazzare e riordinare. È come un grande gioco collettivo con una regola ferrea: sei costretto a confrontare la tua idea con quelle degli altri, a condividere le tue strategie e le tue scoperte. Nemmeno a cena puoi scegliere accanto a chi sederti. Devi mescolarti per forza. Un invito a costruire reti non sulla base delle somiglianze e dell’omofilia, ma sulla differenza.

Il gioco collettivo si chiama impresa culturale ma non è un gioco di ruolo: una volta finito non ci si sveste e non si riprende l’identità di sempre. Qui tutti giocano seriamente, come se in gioco ci fosse la salvezza e questa fosse l’ultima partita di campionato. Non c’è un’altra identità al posto di quella interpretata nel gioco. Quando finisce questo gioco i vestiti che hanno addosso sono gli stessi e gli unici possibili, perché questo gioco è il loro lavoro e devono farlo funzionare.

L’obiettivo, capisco dopo un po’ che giro per i tavoli di gioco, è capire come rimanere in piedi con la propria idea di impresa e di progetto culturale attraverso il confronto con le pratiche degli altri. E gli altri sono amministratori pubblici particolarmente virtuosi, esperti di marketing, artisti, attivisti politici, organizzatori culturali, tutti con formazioni diverse alle spalle e che qui provano a trovare una lingua comune per succhiare dall’esperienza dell’altro qualcosa che potrebbero importare nella propria.

Il dio oscuro e beffardo che li ha riuniti e poi scompaginati crede nell’ibridazione delle esperienze e delle formazioni e finora pare che l’esperimento sociale sia riuscito: non fanno che parlare e guardarsi negli occhi e annuire e aggiungere commenti costruttivi. Sembra la Repubblica ideale di Platone, guidata dalla razionalità comunicativa di Habermas. Quando questa cosa accade, cioè che le persone parlino in forma cooperativa, empatica, senza montare uno sopra la voce dell’altro, è sempre un piccolo miracolo e anche un piccolo spettacolo. Ti dici che allora è possibile, basta avere un Dio oscuro e beffardo che scelga i componenti, li disponga su palchi separati e diriga l’orchestra.

Il mio occhio di entomologo, estraneo alle vicende umane contenute in questo spazio, è colpito dalle traiettorie di vita di queste persone: come sono arrivate fino a questo punto? Come sono finite qui dentro questo contenitore? Da dove arrivano? Camminano da 30 o 40 anni in direzioni diverse, si sono messe in cammino da punti di partenza molto distanti tra loro e però alla fine sono finite qui, oggi. Cosa le ha spinte verso questo spazio? Che ci fanno qui? Come sono diventati imprenditori culturali? A me incuriosisce questo: la strada che ognuno di loro ha fatto per diventare quello che è ora.

Uno di loro per esempio, dopo molti anni di lavoro a Milano è tornato a vivere in un piccolo paese del Piemonte da cui era partito e lì ha fondato un’impresa culturale che ora funziona e si sta ingrandendo e che ha trasformato una chiesa di provincia dotata di una cappella ellittica enorme in un’esperienza di turismo culturale completamente nuova, a metà tra arte e alpinismo. Tornando verso la metro con lui, la sera, gli chiedo perché ha abbandonato Milano. “Perché a me piace svegliarmi con le montagne vicine”, risponde. Allora capisci da dove arriva l’idea di mescolare l’arte con l’alpinismo, anche se applicato a una parete affrescata di una chiesa, invece che a una di roccia.

Quello che siamo, le idee che abbiamo, sono la conseguenza delle buche che abbiamo preso lungo la strada, di quello che siamo stati a 15 anni, di quello che sognavamo e che non si è avverato. Michele ha 31 anni. A 15 anni sognava di fare il graphic designer a Londra e diventare ricco. Allora un’estate è andato a Londra, ha fatto una settimana in un’accademia di grafica. C’era una pressione altissima tra gli studenti e lui lì ha capito che non era bravo abbastanza, che quella pressione e quella richiesta di performance quasi atletica non facevano per lui. È tornato a casa, si è iscritto a Filosofia, ma la passione per l’illustrazione è rimasta. Dopo Filosofia è entrato a lavorare nel settore dell’educazione e della formazione, lavorava con bambini con difficoltà cognitive. Lì ha messo insieme il suo percorso di filosofia e di educatore con i sogni passati di illustratore e ha creato un laboratorio serigrafico artigianale, dove i bambini imparano a progettare e stampare con la tecnica serigrafica.

Michela, 31 anni, da ragazza voleva stare dentro i libri e ora distribuisce libri attraverso una piattaforma per libreria indipendenti. Vitalba, 31 anni, a 15 anni sognava di lavorare nei musei e dopo aver studiato la storia dell’arte ora ha messo in piedi una piattaforma di turismo culturale.

Alessandro, 35 anni, da ragazzo aveva sogni comuni: diventare un calciatore, fare l’atleta….poi a scuola l’hanno eletto rappresentante di classe. Ha scoperto che gli piaceva la dimensione politica del parlare a nome di qualcuno, per il beneficio “di tutti”. A un certo punto ha avuto l’idea di occupare la scuola. Ma al pomeriggio, dopo le lezioni del mattino. Chiedeva di rimanere a scuola, e di fare di più. Ricorda un consiglio di istituto serale, dove i docenti e il preside erano spiazzati dall’idea, sorpresi dal cambio di tattica: se gli studenti non occupano secondo i metodi classici degli scioperi e delle assemblee al posto delle lezioni noi docenti non possiamo recitare la nostra parte. Se ci cambiano il copione, cosa succede? Passano 15 anni e Alessandro ora è uno che si occupa di nuove politiche culturali, dopo un passaggio alla Bocconi come ricercatore in pubblica amministrazione. Sta leggendo L’arte del comando (forse ha qualche mania di grandezza, nomen omen) e non gli è piaciuto L’Armata dei sonnambuli di Wu Ming: “niente in confronto a Q”. 15 anni dopo quell’occupazione di pomeriggio, in fondo, si occupa ancora di strategie.

Anna ha 30 anni ed è di Bologna. A 15 anni voleva viaggiare “e cambiare il mondo”. L’incarnazione successiva di quel desiderio sono stati i collettivi studenteschi, la facoltà di Scienze Politiche, l’attivismo nei movimenti sociali e un dottorato in Storia Costituzionale.

Insieme ai suoi compagni ha dato vita a uno spazio di produzione culturale per dare “un lavoro non solo a noi ma insegnarlo ai ragazzi che vengono da situazioni di svantaggio e non sanno di poter avere anche loro delle opportunità migliori”. Parla di “redistribuzione delle opportunità”, e ci crede davvero, nella possibilità di trasformare uno studente abbandonato dalla scuola in un videomaker creativo e orgoglioso del suo lavoro. Sta leggendo Guida galattica per autostoppisti ma anche tanti Harmony perché, dice, “mi interessano quei prodotti culturali che funzionano, mi piace capire perché”. Tra 10 anni si vede sempre lì, nel quartiere della Bolognina, con il progetto che nel frattempo si è evoluto e “la mia comunità attorno”.

Giovanna voleva insegnare matematica. Ha fatto Economia Politica ed è finita in un’agenzia di marketing digitale, dove tutto “è misurabile”, come nella matematica. Un giorno era a Belgrado in viaggio e conosce un artista in un bar, che la porta a casa sua e le mostra le sue opere. Allora le viene l’idea di creare una specie di Airbnb, solo che le case che ti aprono le porte sono quelle di artisti che hanno una galleria d’arte in casa. Anche questa idea è la conseguenza non casuale di tutte le buche prese per strada, dal fascino per la matematica (tradotta ora nell’algoritmo di una piattaforma digitale) a quello per il viaggio. Ha appena letto La porta, di Magda Szabò e Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf.

Alessandra ha più di quarant’anni ed è la coordinatrice del sistema bibliotecario di una provincia del nord. Ha studiato lingue straniere e già da piccola sapeva che voleva fare la bibliotecaria. Nella biblioteca del padre c’erano libri che le erano vietati, lei li prendeva e, pur rispettando la regola di non leggerli, si imparava a memoria l’indice e i titoli della collana. Ha un’idea di biblioteca che non ha più niente a che fare con il magazzino dei libri: uno spazio aperto, luogo di relazioni e di eventi comunitari. Dice che non ha niente di innovativo, semplicemente si è messa ad ascoltare cosa volevano le persone per le biblioteche. Sta leggendo il Dizionario Universale del Pane.

Qualcuno ha desideri più borghesi e semplicemente vorrebbe far funzionare la sua start up e godersi un po’ la vita. Qualcun altro ha sogni più politici e comunitari. Tutti, ma proprio tutti, lavorano anche il fine settimana, quasi sempre. E tutti sognano, un giorno, di rallentare. Hanno paura di fallire e di investire tutta questa energia in qualcosa che, come un figlio, non ti ripagherà mai di tutto l’amore che ci hai messo.

Ad ergersi sopra le loro traiettorie di vita come un dio oscuro e beffardo, ci sembra quasi di scorgere una rete di sentieri ordinata e in buono stato. Sembra di vederli muoversi, nelle varie età che hanno attraversato, da un punto all’altro, in una direzione che in superficie sembrava caotica ma che ora dall’alto ha preso forma ed è stata modellata dal tempo: tutte le loro precedenti incarnazioni li hanno portati qui dove sono ora. Qualcuno fallirà e cambierà ancora, qualcuno fallirà e ci riproverà, qualcun altro invece rimarrà in piedi. Qualcun altro imparerà che forse applicare la logica di impresa al suo progetto sociale non è una buona strategia. Per qualcun altro invece funzionerà. In questo momento sono tutti in mezzo al guado, come sempre.

Sono entrato qui dentro con lo sguardo un po’ prevenuto di chi era stanco della retorica dell’innovazione e dell’ideologia californiana per cui non c’è più confine tra lavoro e tempo libero, dove il tuo lavoro è la tua passione ed occupa ormai tutto il tuo spazio di vita.

Ne sono uscito con lo sguardo confuso di chi non ha soluzioni e sospende il giudizio. Siamo tutti in mezzo al guado, noi che ci occupiamo di produrre oggetti, esperienze, pratiche culturali. Ognuno di noi ci è arrivato da percorsi casuali solo in apparenza. In realtà, parlando con loro, ho scoperto che niente è stato casuale, che tutti quei sentieri abbozzati appena 15 anni fa, puntavano già in questa direzione. E ora che siamo tutti finiti qui nel guado, ognuno a modo suo ha trovato una soluzione per uscirne, il più possibile etica ed economicamente sostenibile. Non è detto che funzioni ma già l’aver provato a raccontarla agli altri è il primo passo per tirarci fuori le gambe.

Reportage fotografico di Valentina Sommariva